COVID-19: sintomi a lungo raggio
Ad un anno circa dall’inizio della pandemia, come stanno i primi contagiati?
Le preoccupazioni sui sintomi “a lungo raggio” nei sopravvissuti al COVID-19 potrebbero essere riaccese da un nuovo studio che ha scoperto che 3 pazienti su 4 di Wuhan, in Cina – dove ha avuto origine la pandemia – soffrivano ancora di almeno un persistente problema di salute sei mesi dopo.
Lo studio cinese, pubblicato sulla rivista The Lancet, ha coinvolto più di 1.700 pazienti a cui è stato diagnosticato il virus per la prima volta a Wuhan tra gennaio e maggio, e poi a giugno e settembre.
I ricercatori riferiscono che il 76% di questi pazienti ha avuto almeno un sintomo sei mesi dopo l’inizio dei sintomi – i sintomi più comuni erano affaticamento o debolezza muscolare (63%) insieme a disturbi del sonno (26%) e ansia o depressione (23%).
Essendo il COVID-19 una malattia così nuova, non possiamo ancora sapere i suoi effetti a lungo termine.
Visto che questo studio mostra che la maggior parte dei pazienti continua a convivere con almeno alcuni degli effetti del virus dopo aver lasciato l’ospedale, è necessario pensare a delle cure post-dimissione.
Le persone che erano state gravemente ammalate di COVID-19 più spesso avevano una funzione polmonare compromessa, così come anomalie osservate nei raggi X del torace, che potrebbero indicare danni agli organi, sei mesi dopo l’inizio dei sintomi, hanno detto i ricercatori cinesi.
Anche i reni erano spesso colpiti.
Sulla base dei test di laboratorio, circa il 13% dei pazienti che avevano avuto una normale funzione renale mentre erano stati ricoverati in ospedale ha mostrato una ridotta funzionalità renale dopo essersi ripresi da COVID-19.
La speranza è che ci si possa attrezzare con strutture di sostegno per i problemi fisici – e anche per quelli psichici – causati dal virus a distanza di tempo.
Lo studio di Wuhan ha anche cercato di monitorare l’immunità a lungo termine e ha scoperto che i livelli di anticorpi neutralizzanti contro il nuovo coronavirus sono diminuiti di oltre la metà (52,5%) dopo sei mesi in 94 pazienti la cui risposta immunitaria è stata testata al culmine dell’infezione.
Questa scoperta aumenta la preoccupazione per la possibilità che i sopravvissuti possano essere anche reinfettati dal virus. Il vaccino, dunque, è un imperativo anche per loro.
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