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Merci o consumatori a chilometro zero?

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Chi ritiene che consumare cibi o prodotti a chilometro zero sia molto conveniente a noi e all’ambiente, non sempre ha ragione. E non per colpa dei prodotti che consuma

Negli ultimi anni il vero e proprio boom informativo sul consumo ed i vantaggi dei cibi a chilometro zero ha prodotto ottimi risultati nel rapporto tra cittadini e ambiente circostante. Tra questi un posto rilevante va alla maggior sensibilità verso l’apprezzamento di prodotti locali e la migliore cultura del territorio e delle sue potenzialità. Il consumatore “attento” può così acquistare prodotti agricoli locali e stagionali con l’obiettivo di una riduzione di consumi energetici ed emissioni di CO2. E questo per evitare alle merci viaggi di migliaia di chilometri.

A questo punto sembrerebbe che il meccanismo virtuoso dei cibi a chilometro zero possa rappresentare la cura definitiva verso ogni forma di inquinamento legata ai nostri acquisti di generi alimentari. Ma in effetti non sembra essere così. Già l’Istituto Bruno Leoni (www.brunoleoni.it) diversi anni fa, dati ed analisi alla mano, proponeva un esempio: poniamo di prendere l’auto per acquistare 10 chili di generi alimentari recandoci a soli 2,5 km da casa. Allo stesso costo per noi e per l’ambiente, una nave cargo può movimentare la medesima merce da noi acquistata per ben 10.000 chilometri! Questo accade a causa dell’ottimizzazione dei costi che viene a mancare sia nella nostra organizzazione di cittadini che cedono all’uso dell’auto e di veicoli “antieconomici”, quanto alle spese sostenute dalle piccole aziende agricole che per movimentare una quantità di merce relativamente piccola utilizzano furgoni e camion. Mezzi di dimensioni ridotte, ma dall’elevato consumo in rapporto alla capacità di trasporto. E così succede per la produzione e la commercializzazione di tanta parte dei cibi che consumiamo. La pecca sembra essere proprio nella struttura distributiva dei piccoli produttori, oltre che nell’uso scriteriato dei nostri mezzi privati per “intercettare” la merce nel nostro mercato di fiducia. La questione cosiddetta “dell’ultimo miglio” sembra essere quindi la più controversa. Ferma resta la bontà e la qualità di prodotti e generi alimentari che nella loro freschezza conservano un enorme valore aggiunto. Queste qualità, essenzialmente organolettiche e sulle quali insistono i nutrizionisti ha certamente un costo.

Ma vediamo cosa succede all’estero in materia di cibi e prodotti a chilometro zero. Il DEFRA britannico, il Ministero dell’ambiente e dell’agricoltura inglese ha condotto uno studio sul food mile. Gli esiti sono che basarsi solo sullo spazio percorso da una merce non può essere fattore attendibile per misurarne l’impatto ambientale totale. Addirittura questo studio evidenzia che quasi il 50% del chilometraggio percorso dalle merci – in termini di costo – è da attribuirsi a chi acquista. La grande distribuzione organizzata in questo senso rende più efficiente la movimentazione delle merci, garantendo minore impatto ambientale.

Tra qualità, prezzo e riduzione, quindi, dello stesso impatto ambientale una strada percorribile appare esserci e possibilmente va fatta “a piedi”. Le variabili che incidono sul costo di produzione e trasporto delle merci e sulle quali solo la legislazione può incidere in modo determinate, non devono farci dimenticare, infatti, quanto costa all’ecosistema il via vai di noi consumatori. Per pochi chilometri percorsi in auto o in scooter riusciamo a rendere dannosa la nostra spesa per noi e per l’ambiente. Allora se decidiamo con il buon senso di scegliere prodotti del nostro territorio o di fare la spesa nel nostro supermercato, l’importante è trasformarci – noi – in consumatori a chilometro zero. Semplicemente scegliendo di muoverci a piedi, con la bicicletta o con il mezzo pubblico. Sapremo così di aver fatto davvero la nostra parte.

(Vincenzo Nizza)

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