Durban, non ci sono risorse ne’ volonta’ politica, ma solo allarmi esagerati

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La grande crisi globale si è sentita anche al summit di Durban. Il vertice sull’ambiente, dedito a salvare il mondo, non ha prodotto grandi risultati. Protagonisti della riunione tanti, troppi (alcuni esagerati) allarmi, mancanza di volontà e impotenza politica

Di Antonio Galdo

 

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Il summit di Durban, che si è svolto sotto l’ombrello delle Nazioni Unite, registra con precisione cronometrica la paralisi simultanea di governi e istituzioni di fronte a un mondo sottosopra per effetto della Grande Crisi globale partita in tempi non sospetti. E così se da un lato nessuno riesce a frenare, innanzitutto per impotenza politica, la slavina di una recessione alimentata da debiti (degli Stati e dei privati)  insostenibili, dall’altro versante a Durban le delegazioni di 200 paesi del mondo rischiano di alzare le mani di fronte alla necessità di nuove scelte, condivise e globali, per arginare la deriva ambientale del pianeta e la fine della sua sostenibilità. In Sudafrica, con una Conferenza mondiale sui cambiamenti climatici che vede sfilare 20mila delegati per quindici giorni (ma non si possono tagliare delegazioni e giornate di incontri?) in un gigantesco carosello delle dichiarazioni a buon mercato, si dovrebbe rinnovare il protocollo di Kyoto firmato nella preistoria del dicembre del 1997, dopo sette anni di negoziati.

Quella intesa per ridurre i gas serra del 5,2 per cento entro il 2012, ricordiamolo, non è mai stata sottoscritta né dagli Stati Uniti né dalla Cina, le due nazioni che da sole valgono il 56 per cento delle emissioni di gas  rispetto all’11 per cento dell’Unione europea. Con il risultato che le emissioni  dal 1990 sono aumentate del 38 per cento e il protocollo di Kyoto in scadenza ha rappresentato, fino ad oggi, soltanto carta straccia. Nulla di concreto e di realisticamente realizzabile. E adesso che bisogna scriverne una nuova versione, le posizioni di partenza, per grandi linee, restano quelle del 1997: Cina e America dicono no a nuovi accordi, spalleggiate da Giappone, Russia, India e Canada, e l’Europa, priva di una governance politica unitaria e della necessaria autorevolezza per contare in questi contesti planetari, balbetta i suoi sogni per salvare il pianeta. Un circolo vizioso infernale, che abbiamo già visto all’opera con i fallimenti delle conferenze di Copenaghen (2009) e Cancun (2010). Praticamente il mondo balla sul ciglio di un baratro ambientale al ritmo di un inutile e inconcludente mega summit all’anno.

 

Usciremo dal tunnel dell’impotenza? A Durban sicuramente no, ed è ragionevole aspettarci un ennesimo compromesso di parole al vento, che lasceranno scoperti sul tavolo i due obiettivi fondamentali del vertice Onu: limitare entro i 2 gradi l’aumento della temperatura globale e creare, entro il 2020 (altri nove anni di effimera attesa…), un fondo di 100 miliardi di dollari per aiutare i paesi più poveri in questa micidiale lotta contro l’inquinamento.

Non c’è una volontà politica condivisa e con ci sono i quattrini per aiutare il pianeta a imboccare la strada di un nuovo modello di sviluppo, più sostenibile proprio come l’indebitamento di molti stati occidentali oggi insostenibile. Se invece proviamo a fare un piccolo esercizio di ottimismo della volontà, possiamo sperare che sulla spinta della leva di una nuova economia, che chiamiamo green per sintesi, la lotta contro l’inquinamento e per contenere il cambiamento climatico, che significa anche un uso non sprecone delle risorse naturali, diventerà il motore di per una nuova crescita.

Un motore verde, appunto. Come il pacchetto di misure nazionali contenute nel libro bianco sul clima con il quale la delegazione cinese si è presentata alla Conferenza di Durban: un miliardo di euro di investimenti per migliorare, entro il 2015, l’efficienza energetica del paese più inquinatore del mondo; l’eliminazione delle centrali elettriche a carbone che oggi coprono l’80 per cento del fabbisogno nazionale cinese; altri mille miliardi di euro, sempre in cinque anni, per nuove metropoli a impatto zero; 11 milioni posti di lavoro nell’eco-industria made in Cina. Scelte già scolpite e messe in campo dal partito unico, quello comunista, che comanda e indirizza la politica a Pechino, anche per riguadagnare consensi in un popolo che, nella stragrande maggioranza (quasi l’80 per cento degli abitanti della Cina) si dichiara «insoddisfatto della qualità dell’ambiente».

Scelte che noi occidentali faremo con più lentezza, anche per un problema di risorse finanziarie, ma che comunque dovremo in qualche modo applicare. Per necessità e per convenienza, e senza lasciare la bandiera della lotta al global warming nelle mani di abilissimi catastrofisti che, a forza di profezie non avverate, hanno costruito carriere personali e grandi affari. Pensate, tanto per fare un esempio, al caso dell’ex vicepresidente americano Al Gore, uscito dalla politica per volere degli elettori e rientrato nel gioco dalla porta principale, con un premio Nobel in tasca e con un’etichetta di guru mondiale dell’ambientalismo più spinto e, talvolta, più inconcludente.
 

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