L’Italia come la Francia, Le Pen come Meloni? Ecco tutte le differenze
(Adnkronos) – Non importa che il voto sia in Francia, in Grecia o in Papua Nuova Guinea: ci sarà sempre un politico italiano che cercherà di leggerlo in chiave nazionale. Ma quali sono le affinità e le differenze tra l’inedita situazione politica che emerge dalle legislative francesi, e il sorprendentemente stabile mondo italiano? Il Front National è stato fondato da Jean-Marie Le Pen nel 1972: sono 52 anni che il partito – oggi si chiama Rassemblement National – prova a sfondare il “cordone sanitario” che il sistema istituzionale francese gli ha teso intorno dalla sua nascita, considerandolo al di fuori dell’arco costituzionale e opponendo, a ogni ballottaggio raggiunto da un membro della famiglia Le Pen, il cosiddetto fronte repubblicano, un’alleanza “tutti contro uno” per tenere fuori un movimento, ispirato al MSI italiano, che affonda le sue radici nel petainismo e tra i collaborazionisti di Vichy. Diversamente dagli eredi di Almirante, che nel 1994 arrivarono al governo grazie al crollo della Dc e allo sdoganamento di Berlusconi, passando poi per la svolta di Fiuggi e il viaggio di Gianfranco Fini in Israele, fino al 2015 il Fronte Nazionale non aveva rinnegato un bel niente. Ma in quell’anno, le frasi sulle camere a gas (“un dettaglio della Seconda Guerra Mondiale”) sono valse a Jean-Marie una multa per antisemitismo e la cacciata dal partito che aveva fondato. La figlia Marine, da tempo in prima linea, ha iniziato allora un processo edipico di “uccisione del padre”, che l’ha portata a bandire ogni ostilità con il popolo ebraico, nonché ad aprire su questioni fino a quel momento inaccettabili per i nostalgici del Fronte: diritti Lgbt, aborto, laicità dello Stato. Storico “l’outing” di Florian Philippot, vicepresidente del partito, che nel 2014 finì in prima pagina del rotocalco “Closer” con il suo compagno. Fu allora che Marine Le Pen iniziò a difendere pubblicamente le scelte “sacre” della vita privata di ognuno. L’apertura sui diritti civili, in un Paese peraltro dalla forte connotazione laica e libertaria, non sono però state sufficienti per considerare i lepenisti potabili per gli altri movimenti politici. Tralasciando i programmi degli ultimi 20 anni, in occasione di queste elezioni legislative, il Rassemblement National guidato dal 2022 dal giovane Jordan Bardella, ha incentrato la sua campagna elettorale sull’attacco agli stranieri. Con una serie di proposte unanimemente considerate incostituzionali, che avrebbero messo “i francesi prima di tutto”: nel welfare, nei servizi sociali, nelle graduatorie, indipendentemente dai diritti degli “altri” (residenti ma non di nazionalità francese). Oltre a discorsi molto duri contro la minoranza di origine musulmana e magrebina (oltre sei milioni di persone), Bardella e Le Pen si sono messi ad attaccare i cittadini con doppia nazionalità, sottintendendo una mancata fedeltà alla Repubblica e proponendo di escluderli da ruoli nella pubblica amministrazione (in particolare nei settori difesa, sicurezza, intelligence). Si tratta però di oltre 3,5 milioni di persone che sono parenti, colleghi e amici di altri milioni di francesi. Una proposta che ricorda le leggi che negli anni ’30 colpirono gli ebrei e che ha avuto un effetto notevole nell’impedire al RN di ripetere ai ballottaggi il buon risultato del primo turno. L’Italia non ha la storia coloniale francese, non vive la stessa frattura culturale e sociale con il mondo islamico, non ha una comunità di persone con doppia cittadinanza numerosa e attiva come la Francia. Il RN, in particolare dopo il flop di Zemmour, si è posizionato come il nemico numero uno della comunità maghrebina, e cerca di attirare i voti sia di chi vive nelle banlieues a contatto con queste comunità, sia di chi le teme a prescindere. Semplificando molto, nel nostro Paese la comunità islamica è meno numerosa, è composta non da giovani africani di seconda o terza generazione (con molta rabbia nei confronti di una Francia che non ha saputo integrarli), ma da asiatici di prima generazione (pakistani e bengalesi) che tendenzialmente non vivono l’Islam in chiave politica e non covano risentimento per ragioni coloniali. Giorgia Meloni all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina si è schierata nettamente in difesa di Kyiv, e da presidente del Consiglio ha ribadito il legame con gli Stati Uniti e il ruolo italiano nella Nato, instaurando anche una stretta relazione con Ursula von der Leyen. Marine Le Pen è, tuttora, agli antipodi in politica estera. Se il francese medio diffida degli Stati Uniti, la leader di RN è sempre andata al di là della diffidenza, schierandosi più volte contro Washington e al fianco di Putin, il “patriota”. Nel 2014, a poche settimane dall’annessione illegale della Crimea, il suo partito ottenne un prestito da 9 milioni di euro da una banca ceco-russa. Ha sempre difeso questa scelta spiegando che le banche dell’UE non le facevano credito, e che le alternative erano cinesi o iraniane. Nella campagna elettorale per le europee, Marine Le Pen è apparsa in videomessaggio durante il summit di Identità e Democrazia, il gruppo europeo di cui forse non farà più parte, organizzato a Roma dalla Lega. Nel video, buona parte era dedicata a un attacco a Giorgia Meloni per il suo rapporto con Ursula von der Leyen, considerata da Le Pen la causa del disastro economico e sociale europeo. Anche in questo campo, le differenze tra la destra francese (ricordiamo che Le Pen si definisce “né di destra né di sinistra, ma solo patriota”, come Putin) e la destra di Fratelli d’Italia, restano notevoli. Quando nacque il governo Draghi, all’inizio del 2021, Fratelli d’Italia fu l’unico partito italiano a restare all’opposizione. Persino la Lega che fu no-Euro e poi giallo-verde si unì alla grande coalizione guidata dall’ex presidente Bce. Aver evitato i palazzi romani sin dalla nascita del partito (nel 2012) ha permesso a Meloni e i suoi di sfruttare al massimo l’effetto anti-establishment (o “underdog”, come si è auto-definita) e vincere le elezioni nel 2022. I Le Pen hanno avuto vita molto difficile all’Assemblea nazionale: il sistema uninominale a due turni per decenni ha tenuto fuori gran parte dei loro candidati. Nel 2022, con Macron rieletto ma indebolito in parlamento, ottengono 89 seggi e per la prima volta riescono a formare un gruppo. Con il voto di ieri arrivano a 126 deputati (più i ribelli di Eric Ciotti) e diventano il primo partito. Esclusi dal governo, hanno la chance di continuare ad accumulare consensi, reiterando l’accusa di “golpe amministrativo” e di “alleanza del disonore” contro il fronte repubblicano. A differenza di Meloni, però, potrebbero non essere i soli all’opposizione. Bisogna ancora capire quale ruolo e quale peso potrà avere La France Insoumise, partito di Mélenchon, nel governo che verrà. Prima del ballottaggio, Macron aveva detto che avrebbe tenuto fuori dalla maggioranza l’odiato leader della sinistra oltranzista. Ieri sera Edouard Philippe, ex primo ministro macroniano, ha detto che andrà costruita una coalizione con dentro tutti tranne Rassemblement National e France Insoumise. Mélenchon appena si sono chiuse le urne ha subito preso il controllo della narrazione del Nuovo Fronte Popolare, e ora socialisti, comunisti e ambientalisti non possono scaricarlo, non subito almeno. Un terzo “incomodo” fuori dalla grande coalizione potrebbe essere anche il gruppo dei Repubblicani, gli eredi dei gollisti che da Sarkozy in poi hanno perso milioni di voti a favore di Le Pen e Macron. Far parte della nascente maggioranza avrebbe il vantaggio di piazzare qualche pedina al governo e lo svantaggio di finire definitivamente scavalcati dalla destra più “pura”, cioè dai ribelli di Eric Ciotti e dal Rassemblement National. Ieri sera uno dei leader repubblicani con ambizioni per l’Eliseo, Laurent Wauquiez, ha detto che non ci sarà “né coalizione né compromissione” con la strana alleanza sinistra+centristi. Il partito, dopo lo scisma di Ciotti, non ha una guida ufficiale, e non è detto che ubbidirà compatto a questo ordine. Dopo il successo di Keir Starmer e lo scatto della sinistra francese, in Italia torna il modello straniero come strategia per riconquistare il potere. Un film già visto: dalla B di Blair alla Z di Zapatero, c’è sempre un leader oltreconfine che custodisce la ricetta per una vittoria progressista. La sinistra italiana è riuscita addirittura a chiamare un partito in onore di un premier della Grecia – l’unico paese allora messo peggio di noi in termini economici – durato il tempo di un’elezione e un referendum (“L’Altra Europa con Tsipras”). Il problema è che i francesi non hanno (ancora) trovato il modo di far convivere il partito comunista e Horizons, la “gamba destra” del gruppo macronista, due ruoli che in Italia potremmo assegnare a Fratoianni e Calenda. O di far la pace tra il leader di Place Public Raphaël Glucksmann e Jean-Luc Mélenchon, definito solo tre giorni fa, in piena campagna elettorale in cui doveva fingere armonia, “un problema immenso”. Per ora il campo largo italiano, che non esiste a livello nazionale ma fa capolino alle elezioni amministrative con alterne fortune (bene nei comuni, meno nelle regioni), dovrà trovare al suo interno – se esiste – il modo di creare una coalizione strutturata. —politicawebinfo@adnkronos.com (Web Info)