I borghi più belli d’Italia: Emilia Romagna
Tradizione e sapori ma anche accoglienza e motori
Terra di sapori e di motori, di tradizioni e accoglienza consolidate nel tempo. Peculiarità che si presentano anche nei borghi dell’Emilia- Romagna, a cominciare proprio dalla Riviera Romagnola, uno degli esempi più significativi dello sviluppo turistico di questa regione.
E proprio da qui, quasi al confine con le Marche, ecco San Giovanni in Marignano.
Borgo fortificato, è sorto per difendere il tesoro della dea Cerere, protettrice dei raccolti, in cui grano e cereali venivano ammassati nei depositi sotterranei.
Ma i campi pulsano ancora intorno al paese e il vecchio borgo sta sempre dentro le antiche colline dei Malatesta alle spalle e la brezza del mare di fronte, uno splendido recinto che gli ha creato la storia.
Mietitura, trebbiatura, falciatura, oggi, sono riti dimenticati: rimane solo il ricordo della Notte delle Streghe, dal 19 al 23 giugno che rievoca le tradizioni popolari, i riti della Notte di San Giovanni e le celebrazioni legate al solstizio d’estate, quando le streghe facevano sosta a San Giovanni in Marignano nel loro viaggio verso Benevento. Spettacoli, animazioni, scenografie, punti ristoro e mercatino per rivivere antiche fascinazioni.
San Giovanni è Città del Vino e fa parte del Consorzio Strada dei Vini e dei Sapori dei Colli di Rimini. E proprio con il Capodanno del Vino, la quarta domenica di settembre, si dà il benvenuto al vino nuovo recuperando le tradizioni popolari campestri come la gara della pigiatura, la “rustida” di pesce, il mercatino e la degustazione di vini e prodotti tipici
Entrati nel borgo fortificato si attraversa la “via di mezzo” sulla quale si affacciano pregevoli edifici sette-ottocenteschi.
La via principale è asse di simmetria per le vie secondarie che l’intersecano o le corrono in parallelo, dividendosi in lato mare e lato monte, secondo un disegno geometrico che risale al Quattrocento, quando i Malatesta ristrutturarono l’originario impianto urbano duecentesco.
Nel borgo si incontrano tre notevoli edifici: la chiesa di San Pietro, citata dal 1348, ma dovrebbe essere coeva alla fondazione del castello, quindi duecentesca e si presenta oggi nell’ultima ristrutturazione, avvenuta a metà Settecento.
Il teatro Massari, uno degli splendidi edifici ottocenteschi così frequenti in Romagna. In origine oratorio della Confraternita del Rosario, fu adibito alle scene nel 1821 e radicalmente restaurato nel 1855 fino a trasformarlo nel tipico teatro all’italiana a ferro di cavallo con due ordini di palchi.
E poi Palazzo Corbucci che fu residenza di Malatesta de’ Malatesti, signore di Pesaro, nella seconda metà del Trecento. Dopo vari passaggi di proprietà, fu acquistato da Pietro Corbucci nel 1812 e recentemente passato all’Amministrazione comunale.
San Giovanni è la porta della Valle del Conca che presenta un paesaggio ancora prevalentemente agricolo, con intere colline coltivate e case rurali sparse, emblema delle terre malatestiane, che comprendono anche la vicina Valle del Marecchia.
Qui si trova la Romagna più vera, ricca di castelli, rocche, tradizioni. Un territorio di colline morbide e arrotondate a due passi dal mare, dove natura, cultura e gastronomia trovano la perfetta sintesi.
Poco distante Montegridolfo estremo lembo di Romagna un tempo baluardo a guardia del crinale che separa il versante romagnolo da quello marchigiano.
Storicamente conteso da Malatesta, Montefeltro, Borgia, ha conservato orgogliosamente la parlata e i costumi della bassa Romagna.
L’impianto urbanistico è ancora quello medievale: il terrapieno è circondato da forti mura fiancheggiate da torrioni, e dentro le mura vi sono strette stradine su cui si affacciano le casette, alcune abitate come residenza principale, altre utilizzate come strutture ricettive.
Palazzo Viviani, infatti, antica dimora signorile, è oggi un apprezzato albergo-ristorante. Nella piazzetta, la cappellina Viviani e una “Madonnina nera”, collocata nella parete della casa a fianco, sono quanto resta della duecentesca chiesa di Sant’Agostino distrutta dagli eventi bellici del 1944.
Verso valle si incontra la chiesa di San Pietro, le cui origini sono anteriori all’anno Mille, ma che è stata ricostruita nel secondo dopoguerra, mentre nella frazione Trebbio sorge il santuario della Beata Vergine delle Grazie, eretto dopo l’apparizione della Madonna nel 1548 e ristrutturata nel 1740 e da allora è meta di pellegrinaggi dalla Romagna e dalle vicine Marche.
Circondato da oliveti, il borgo offre anche l’attrattiva e la quiete di percorsi naturalistici e passeggiate sulle colline come alternativa alla vita di mare. Passa per Montegridolfo la “Strada delle colline di Romagna”, istituita dalla Provincia di Rimini con percorsi segnalati e aree di sosta.
Tra gli eventi principali sicuramente si ricorda la Festa dell’Olio Novello in tavola, la seconda domenica di dicembre. Un punto di riferimento per tutti gli appassionati dell’olio di qualità e per i produttori locali e del circondario.
E proprio grazie all’olio che si gustano le specialità gastronomiche quali tagliatelle al ragù e ai funghi, strozzapreti pasticciati e al sugo, polenta al sugo. E poi agnello, coniglio, pollo e piccione cucinati al forno, da accompagnare con il Trebbiano e il Sangiovese di Romagna, vini che ottimamente si sposano con i sapori della collina.
Proseguendo per Montefiore Conca si incontrano atmosfere cariche di suggestione offerte dalla Rocca Malatestiana che racchiude metaforicamente i misteri della vita del tempo che scorre, dell’origine e della fine delle cose.
Proprio la Rocca Malatestiana è il più potente simbolo del potere di questa famiglia in tutta la Valconca. La forma attuale, pur con le modifiche apportate nel XV e XVI secolo, non si discosta molto nella planimetria da quella originaria.
Pandolfo Malatesta si adoperò per rendere la Rocca più bella e accogliente, ma fu sotto il dominio di Sigismondo, signore illuminato e amante delle arti, che essa raggiunse il massimo splendore. In questo periodo la Rocca ricevette la definitiva sistemazione: baluardo imprendibile e dimora gentilizia, dove il signore rigenerava nell’ozio e nelle battute di caccia le forze spese nelle continue guerre.
Tre lunghe notti durante il plenilunio di luglio, quando il bianco astro celeste illumina morbidamente la rocca e le vie del borgo, piene di ombre e luci soffuse, caratterizzano l’evento Rocca di Luna in cui suoni, visioni, profumi, degustazioni e amori sono dedicati alla Luna.
Tutte le domeniche di ottobre, invece, ha luogo una delle più antiche fiere del Riminese, la Sagra della Castagna, imperniata su questo frutto che ha la particolarità di crescere a quote basse in secolari castagneti confinanti con uliveti come i due grandi boschi del Faggeto e del Monte Auro.
Oltre alla meraviglia della Rocca, nel borgo vi sono altri luoghi da visitare come la chiesa parrocchiale di San Paolo, di origine trecentesca, dal bel portale gotico che conserva all’interno un crocifisso in legno di scuola riminese.
Il santuario della Madonna di Bonora, immerso nel verde appena fuori del borgo, è uno dei luoghi di culto più importanti del Riminese: vi si venera l’immagine della Madonna che allatta, risalente al XV secolo, alla quale tanti fedeli portano in dono ex voto per le grazie ricevute.
Vicino Rimini, quasi al confine con la Repubblica di San Marino, si trova San Leo .
Un borgo da godere ed ammirare con calma. La sua rocca è la più misteriosa tra tutte quelle del Montefeltro, e tale appare sotto i mutevoli cieli contro i quali si staglia, corteggiata dalle nuvole o illuminata da luci crepuscolari.
Dai suoi quasi 600 metri d’altezza, la rocca di San Leo domina la vallata del Marecchia e un panorama di boschi che si spinge fino al mare. Più sotto, il piccolo borgo è raccolto e compatto, ancora lastricato in pietra e pervaso di una rilassante atmosfera.
L’edificio più antico di San Leo, però, è la pieve, che raccoglie intorno a sé il nucleo della città medievale. Costruita in epoca carolingia e rimodernata in età romanica, tutta in conci di pietra, la pieve sarebbe sorta tra VIII e X secolo nel luogo dell’originaria celletta in cui San Leone si ritirava in preghiera.
In quello stesso secolo, accanto alla pieve fu eretta la cattedrale, consacrata al culto del Santo Leone, mentre a partire dal 1173 la cattedrale fu completamente rinnovata nelle forme romanico-lombarde in cui si può ammirare oggi, e unita alla possente torre campanaria di probabile origine bizantina.
Il nucleo romanico del borgo, costituito da pieve, cattedrale e torre, si confronta in piazza Dante Alighieri con gli edifici civili, quali il palazzo Della Rovere, residenza dei conti di Montefeltro e duchi di Urbino, ora sede municipale, il palazzo Nardini, dove fu ospite San Francesco nel 1213, e il palazzo Mediceo, costruito dai Della Rovere e rimodernato dai Medici.
Due balconi sono presenti nel territorio di San Leo: il primo in località Varco Biforca-Tausano dove, nel panorama che guarda verso la Toscana, si ritrova il paesaggio del ritratto di Battista Sforza, sposa di Federico da Montefeltro, come appare nel famoso “Dittico dei Duchi” conservato agli Uffizi. Il secondo balcone, rivolto verso il mare, svela il paesaggio che fa da sfondo al dipinto di Piero “San Girolamo e il Devoto” (Venezia, Galleria dell’Accademia).
Si prosegue per Verucchio situato su un rilievo nella bassa valle del Marecchia, al confine con il Montefeltro e la Repubblica di San Marino.
La straordinaria conformazione del luogo ne ha determinato la storia, perché fin dall’età del ferro è stata sfruttata la sua caratteristica di fortezza naturale.
I resti di un villaggio villanoviano-etrusco risalenti al periodo compreso tra IX-VII secolo a.C. sono ancora visibili nelle necropoli scoperte in queste terre segnate dalla presenza del fiume Marecchia. Le sue sorgenti, vicine alla valle del Tevere, consentivano il collegamento tra l’Adriatico e il Tirreno.
Con il passaggio dall’età romana a quella medievale, Verucchio sale alla ribalta della storia per essere la culla e il luogo di provenienza della celebre famiglia Malatesta. Ed è proprio sotto la loro signoria che assume la struttura urbanistica che conserva tuttora.
Dall’ariosa piazza Malatesta, sulla quale si affacciano eleganti palazzi sette-ottocenteschi tra cui quello che ospita il Municipio, può iniziare la visita del paese. Salendo per via San Martino, si raggiunge la chiesa Collegiata, edificata nel 1863 e contenente pregevoli opere d’arte, quali il crocifisso del “Maestro di Verucchio” della prima metà del XIV secolo e il crocifisso di Nicola del Paradiso di inizio XIV secolo.
Sulle due cime del monte si ergono ancora le fortificazioni malatestiane: la rocca di Passerello nell’omonimo borgo, trasformata nel Seicento in austero convento femminile, e la rocca del Sasso, costruita a partire dal XIII secolo dal fondatore della dinastia, Malatesta da Verucchio detto “Mastin Vecchio”, citato anche da Dante nella Commedia.
Due sono gli emblemi di Verucchio: la rosa canina, simbolo dei Malatesta, e la fibula d’ambra, che richiama il Museo Civico Archeologico. Quest’ultimo racconta la storia del villaggio villanoviano-etrusco che sorse sulla rupe di Verucchio nella prima età del ferro.
Dal IX al VII secolo a.C. le famiglie aristocratiche, la cui ricchezza derivava dagli scambi commerciali verso il Tirreno, il Piceno, il Veneto e il nord Europa, seppellirono i loro defunti nelle necropoli.
Da lì provengono i corredi funerari esposti: armi, strumenti per filatura e tessitura, raffinati gioielli in ambra o in oro, tavolini e troni, tra cui il pezzo forte è il trono ligneo intagliato della fine dell’VIII secolo a.C.
Le mura, i torrioni, le prigioni, la terrazza panoramica con vista sulla valle del Marecchia e i tetti di Verucchio, fanno oggi da sfondo a convegni, mostre ed eventi come il Verucchio Music Festival che si svolge nella seconda metà di luglio con un cartellone ricco di artisti nazionali e internazionali.
Quanto ai piatti tipici, spiccano i cappelletti in brodo e, in inverno, la “zavardona”, sorta di maltagliati grossi conditi con stracchino e sugo. Ampia la scelta gastronomica: olio extravergine della Valmarecchia, riscoperta del vitigno rosso “Veruccese” (Sangiovese) all’interno della Dop Colli di Rimini e prodotti suini di razza mora romagnola.
Arrivando nel territorio di Ravenna si visita Brisighella un paesino che accoglie nei suoi vicoli silenziosi e nelle sue atmosfere nebbiose.
Brisighella è il mondo di luce tenue rappresentato da Giuseppe Ugonia, faentino di nascita, che del borgo fece la sua patria e la fonte ispiratrice del suo lavoro d’artista.
Attraverso acquerelli, incisioni e litografie, Ugonia ha raffigurato questo angolo di Romagna, trasfigurando poeticamente e con una tecnica raffinata i paesaggi in cui aveva deciso di vivere e dai quali non si sarebbe più allontanato, nonostante la fama internazionale acquisita. I suoi lavori, infatti, sono conservati al British Museum di Londra, a Washington, Ginevra, Roma, Firenze e, in numero di circa 400, presso il Museo Civico di Brisighella a lui dedicato.
Il borgo è addossato a una rupe gessosa e sovrastato da tre scogli di selenite sui quali si ergono la Rocca e il Santuario del Monticino. All’interno della parte storica, l’atmosfera medievale è conservata nel saliscendi di strade e viuzze, negli angoli nascosti e negli edifici maestosi come nelle case basse e arroccate.
Il cuore del borgo, magico nella quiete notturna, è piazza Marconi, sulla quale si affacciano palazzo Maghinardo, sede del municipio, e l’originalissima via del Borgo, detta anche via degli Asini, una strada sopraelevata, coperta, illuminata da archi a forma di mezzaluna di differente ampiezza, unica al mondo.
Nel vicinissimo scoglio di selenite si erge la Rocca Manfrediana, sorta per il controllo della valle del Lamone. Il complesso di questa fortezza si compone del cosiddetto Torrione veneziano degli inizi secolo XVI e del trecentesco Torricino, edificato dai Manfredi di Faenza. Oggi, riportata a nuovo splendore, la Rocca costituisce un pregevole esempio dell’arte militare del Medioevo.
Dagli spalti della fortezza si ammira un bellissimo paesaggio, così come dal santuario del Monticino, risalente al XVIII secolo, posto sul terzo colle, un tempo noto come Calvario. Da lì, la vista spazia sul borgo sottostante e sull’intera valle, fino ai confini con la Toscana.
Proseguendo lungo la strada per Firenze, poco fuori dal paese, si trova la pieve del Tho.
Le sue origini sono comprese tra VIII e X secolo. Dedicata a San Giovanni Battista, è detta più brevemente del Tho, perché collocata all’ottavo miglio della strada romana che congiungeva Faenza con la Toscana.
Brisighella ha inoltre fama di buona cucina, grazie all’uso sapiente dei prodotti del territorio. Il piatto tradizionale è una minestra ripiena. Su una sfoglia di pasta fresca all’uovo viene steso un velo di ripieno, da qui il nome popolaresco di spoja lorda, a base di ricotta, raveggiolo, parmigiano, uova, noce moscata. La sfoglia viene quindi ripiegata su se stessa, compressa e tagliata a quadrucci da cuocere nel brodo di manzo e gallina.
Il prodotto principale è l’olio extravergine di oliva che si fregia della Dop europea, ma non si possono dimenticare il formaggio conciato con stagionatura nelle grotte di gesso, la carne di Mora romagnola, antica razza suina autoctona, e il carciofo Moretto, tipico della zona dei calanchi.
Adagiato sulle prime colline che dominano la via Emilia, fra Bologna e Imola, ecco Dozza
Piccolo borgo emiliano dalla forte identità che assume anche la forma dell’arte e fa vibrare nel segno della bellezza il paesaggio urbano.
Il “Muro Dipinto”, qui, è una singolare manifestazione settembrina di pittura sui muri che ha trasformato il borgo medievale in una galleria d’arte a cielo aperto. Segno di una vitalità che, seguendo il filo di un racconto antico, trova e propone nuove storie da ascoltare con gli occhi.
Dal grifo che si abbevera, raffigurato nello stemma, al nettare dorato dell’Albana coltivata in un paesaggio che sembra quasi toscano, Dozza si apre discreto con le sue stradine selciate fino alla Rocca Sforzesca, potente, massiccia, eppure ben armonizzata con il resto dell’abitato.
La Rocca, punto di convergenza delle due strade che attraversano longitudinalmente il paese, è a pianta esagonale con due torrioni e un perimetro di 530 metri. L’aspetto attuale è il frutto delle trasformazioni in palazzo signorile, completate dai Malvezzi nel 1594.
Al piano terra vi è la cucina, con fuochi, camini, pozzo e utensili d’epoca, mentre il cuore della residenza è al piano nobile, con la sala di rappresentanza arredata con mobili e dipinti del ‘700 e aperta sul grande terrazzo. Da vedere inoltre la Camera di Pio VII, la sala delle armi, le prigioni e i camminamenti di guardia che offrono un magnifico panorama sulle valli sottostanti coltivate a vigneti.
Nelle cantine con i soffitti a volta trova posto l’Enoteca Regionale dell’Emilia Romagna, dove sono a disposizione per la degustazione e l’acquisto oltre 800 etichette, in rappresentanza dei circa 200 migliori produttori presenti sul territorio regionale. L’Enoteca organizza degustazioni guidate con sommelier in abbinamento ai prodotti tipici della regione, incontri e serate a tema.
Ma vero prodotto del borgo è l’Albana, il primo bianco ad aver ottenuto in Italia il marchio Docg (denominazione di origine controllata e garantita). Questo vino affonda le radici in un passato remoto e conobbe il suo periodo di gloria ai tempi della Repubblica di Venezia, essendo al tempo molto apprezzato dai dogi.
L’appuntamento a tavola si rinnova il primo fine settimana di settembre con la Festa delle Arzdore, con i piatti tipici preparati dalle arzdore, le “reggitrici della casa”, le mogli dei contadini, cui spettava l’organizzazione della vita domestica.
Ma qui sono anche ottimi i salumi. E per i primi piatti, rigorosamente con la sfoglia tirata a mano, si va dalle tagliatelle ai garganelli, maccheroni al pettine, arrotolati su un apposito telaio, ai tortelli di ricotta al profumo di salvia, mentre il ragù è di carne, a base di prosciutto o di magro. Fra i secondi dominano le carni ai ferri, come fiorentina e castrato, poi i formaggi, molli come il freschissimo squacquerone o stagionati come il pecorino di fossa.
Nella provincia modenese, invece, si visita il borgo di Fiumalbo
in cui lo spirito dei Celti è custodito nei boschi dell’Appennino tosco-emiliano dove, in una valle dominata dal Monte Cimone, si nascondono le pietre, i sassi, le acque e la purezza d’aria di Fiumalbo.
Le misteriose marcolfe rappresentano importanti memorie celtiche, sculture in pietra che ritraggono volti sgraziati, poste sulla facciata della casa per intimorire gli spiriti maligni. Le due più note sono quella dal volto di lupo, scolpita su un muro a Ca’ de Gabani, e quella ancor più straniante in località Danda, in questo luogo ricco d’arte, sulle cui antiche mulattiere si sono incrociate la Toscana e l’Emilia.
Influssi toscani sono evidenti nello stile delle chiese, nei nomi e nel dialetto, che è quasi un’enclave linguistica, differente da tutti gli altri idiomi della zona, con inflessioni anche liguri e venete, morbidamente avvolte nell’accento modenese.
Vecchie case in pietra, per lo più ristrutturate, si affacciano su stradine in pendenza, nella tipica conformazione medievale dei paesi d’Appennino, mentre i boschi intorno formano una corona naturale su cui si impongono le vette del Frignano e il monte Cimone in particolare.
Il borgo ha origini lontane nel tempo, come testimoniano i “casoni”, o capanne celtiche, edifici rurali a pianta rettangolare in muratura di sasso e malta di terra, alcuni dei quali conservano la copertura di paglia di segala.
Queste costruzioni, molto simili a strutture rurali presenti in Irlanda e Scozia, sono perfettamente inserite nell’ambiente appenninico, hanno il tetto a gradoni protetto da lastre di arenaria e potrebbero risalire alla discesa dei Celti in Italia nel IV secolo a.C.
Ma lasciando i Celti e visitando il centro storico si incontra, nella piazza centrale, la chiesa di San Bartolomeo Apostolo. La parrocchiale di Fiumalbo si presenta nel suo rifacimento del 1592, mentre della primitiva costruzione del 1220, che era più piccola, a una sola navata e interamente in pietra, restano le sculture del portale e del fonte battesimale.
Sempre in piazza, si trova la chiesa dell’Immacolata Concezione, o “dei Bianchi”, perché sede dell’omonima confraternita. Terminata nel 1516, le pareti affrescate dal Saccaccino nel 1534 sono sparite con la ristrutturazione ottocentesca.
Nella piazza a fianco della cattedrale, la chiesa di Santa Caterina, consacrata nel 1601, è detta “dei Rossi” antica sede dell’omonima confraternita che oggi ospita il museo di arte sacra. La confraternita si è spostata nell’oratorio di Sant’Antonio, ampliato nel 1708 ma coevo alla chiesa parrocchiale.
Fiumalbo è uno dei due ingressi al Parco del Frignano.
Il centro visita di Ca’ Silvestro è situato in un fabbricato d’inizio Novecento a un km dal borgo. Il parco protegge un’area di oltre 15mila ettari che va dai 500 metri d’altitudine dei prati da fieno ai 2.165 del monte Cimone, il maggior rilievo dell’Appennino tosco-emiliano.
Tra gli eventi si segnala la Festa di San Bartolomeo, il 23 agosto. Il borgo, per celebrare il suo patrono, si illumina con torce, fiaccole, candele. Il santo, invece, viene accompagnato in processione dalle confraternite dei Bianchi e dei Rossi, che indossano i tradizionali costumi e portano antichi stendardi. Il giorno seguente si svolge la fiera, con l’allestimento delle bancarelle per le strade del paese.
Il crinale che divide l’Emilia e la Toscana, è anche fonte di unione tra le cucine delle due regioni. così sulle tavole di Fiumalbo si possono gustare tortellini e tortelloni di ricotta, zuppa di cavolo nero, il piatto più tradizionale, e tagliata di manzo. Tipici sono i borlenghi farciti con lardo e salumi, e le tigelle, sul cui dischetto è spesso stampata la rosa celtica, a indicarne la probabile origine.
E se nei secondi piatti trionfano funghi e cacciagione accompagnati da polenta, il re dei dolci è il croccante, inventato a Fiumalbo, con ingredienti naturali come miele di castagno, mandorle bianche, zucchero e caramello.
Procedendo quasi al confine con la Liguria, la provincia di Parma ospita il borgo di Compiano piccolo paesino dai vicoli lastricati in salita sui quali si affacciano palazzi nobiliari e case torri.
Per la sua particolare conformazione strutturale, compreso in una cinta muraria ben conservata con il sovrastante castello, il borgo è chiamato la “San Marino della provincia di Parma”.
Seguendo le vie lastricate si arriva alla Piazza, una suggestiva terrazza sul Taro, vicino la quale si trova la Chiesa di San Giovanni Battista, che risale probabilmente al periodo longobardo, sulla quale sono stati eseguiti restauri importanti nel 1700.
All’apice del Borgo si staglia il Castello, la cui costruzione è probabilmente cominciata da una antica torre carolingia intorno alla quale, nello scorrere dei secoli, si è sviluppato l’intero maniero che oggi si presenta come possente struttura quattrocentesca con ampliamenti sei-settecenteschi.
Una particolarità in questa zona è il “passaporto della leggera” il nome che i Girovaghi davano al misero bagaglio che portavano con sé durante i loro viaggi. Le loro attività erano diverse: venditori d’inchiostro, lumini o pomate “miracolose”, burattinai, musicanti.
L’epicentro originario dei Girovaghi era la zona del monte Pelpi, nell’Appennino parmense tra Bedonia e Compiano. Da queste zone partivano alla volta dell’Europa per vendere le proprie creazioni, suonare nelle fiere di paese ed esibirsi con orsi, scimmie e cammelli.
Maria Teresa Alpi, appassionata raccoglitrice, aveva fatto nascere a Compiano il Museo degli Orsanti e il Festival dei Girovaghi, dedicato agli artisti di strada e a chi ha fatto della vita nomade ed errante uno stile di vita, a chi gira il mondo a piedi o in bicicletta, a chi scala montagne o va a meditare nel deserto, a chi gira i paesi per vendere le cose più strane.
In seguito alla morte dell’ideatrice, il Festival fu sospeso per qualche anno, ma un gruppo di volontari ricominciò l’organizzazione di un nuovo “Festival degli Orsanti”, che dal 2021 per iniziativa dell’Amministrazione Comunale diventerà il “Festival degli artisti di strada”.
Un’altra particolarità di Compiano riguarda la sua offerta gastronomica. Tra i primi piatti si distinguono gli gnocchi di castagna con la ricotta e i tradizionali tagliolini ai funghi porcini IGP. Nei secondi piatti sono invece annoverati il vitello alla Valtarese, vitello arrosto con contorno di funghi porcini IGP, e la faraona alla castellana, in umido con sapori dell’orto, ma per la tradizione non si deve dimenticare la selvaggina locale, come il classico spezzatino di cinghiale. E per concludere, il dolce tipico è il latte in piedi, una sorta di crema di latte cotta a bagnomaria e cosparsa di caramello.
Attraversando Reggio Emilia e sostando nel suo territorio si scopre Gualtieri una piccola località disegnata come una minuscola corte ben attrezzata dai marchesi Bentivoglio, signori delle acque e delle bonifiche.
Il complesso urbano di Gualtieri è stato progettato, come altre città nuove del Rinascimento, integrando il vecchio borgo nella nuova sistemazione. Partendo da piazza Cavallotti e percorrendo via Vittorio Emanuele II, ci si ritrova in un lungo cannocchiale prospettico chiuso in fondo dalla torre civica.
Man mano che ci si avvicina alla piazza principale, l’arco d’ingresso della torre lascia intravedere la facciata di Palazzo Bentivoglio, dando l’impressione di uno spazio vasto quanto quello di una fortezza.
Avanzando ancora, ecco che, superata la soglia della torre civica, si apre, in tutta la sua potenza simbolica, il magnifico e luminoso spazio quadrato di Piazza Bentivoglio, una delle piazze più belle d’Italia che doveva già apparire ai suoi tempi, quando aveva contemporaneamente la funzione di piazza pubblica e cortile d’onore del palazzo.
Nella piazza confluiscono tre strade che aprono la prospettiva sulle tre emergenze principali: il palazzo, la chiesa e la torre. Il palazzo Bentivoglio, voluto da Ippolito, figlio del marchese Cornelio, fu realizzato dall’Aleotti contemporaneamente alla piazza. Nella parte retrostante vi era un grande giardino che arrivava fino al Po ed era l’approdo per gli ospiti che giungevano a Gualtieri via acqua.
Notevoli i cicli pittorici che si sono conservati a palazzo: si tratta di un affresco al piano terra e diverse sale al piano nobile. Decorazioni, stucchi e pitture raccontano una mitologia padana cresciuta all’ombra della storia di Roma, dell’Eneide e dei poemi cavallereschi.
Come i Gonzaga a palazzo Te, anche i Bentivoglio, in piccolo, vollero il loro Salone dei Giganti, affrescato con il ciclo della Gerusalemme Liberata da Pier Francesco Battistelli e i suoi aiuti.
A Palazzo Bentivoglio, inoltre, è possibile una visita guidata alle sale e ai cicli pittorici. All’interno sono allestiti il Museo Documentario Antonio Ligabue e la Donazione Umberto Tirelli. Nel primo è ricostruita con materiale bibliografico e iconografico la vicenda del pittore naïf, la cui arte, sospesa tra primitivismo ed espressionismo, non poggia su basi culturali ma sul genio contadino e su una forte componente psicanalitica.
Ligabue visse isolato come un selvaggio a Gualtieri, nei boschi e nelle golene del Po.
Umberto Tirelli, invece, è stato, invece, un grande sarto teatrale, punto di riferimento per i maggiori registi di cinema e teatro.
In questo paesaggio di terra e acque è da vedere, infine, la botte Bentivoglio, costruita nel 1576 sotto il torrente Crostolo da argine a argine, come parte delle bonifiche con cui gli antichi marchesi trasformarono il territorio per garantire lo scolo delle acque piovane e l’irrigazione.
Cascine, poderi, pioppeti, ponti, canali, strade, disegnano un paesaggio in cui è protagonista l’acqua: Gualtieri si trova a ridosso della riva destra del Po e della sponda sinistra del torrente Crostolo. Basta percorrere il viale Po, dall’argine maestro al fiume, per cogliere il fascino di un ambiente costruito bonificando i terreni che ristagnavano d’acqua.
Nella parte alta conserva terreni coltivati a vite e prati. Dietro l’argine maestro, che si alza quasi alle spalle di piazza Bentivoglio, tra due strade aperte nel Cinquecento è stata creata un’area protetta, il Caldarèn, dove tra i recessi ombrosi e i chiaroscuri resistono la flora e la fauna della pianura.
Ma di particolare importanza, a Gualtieri, è anche l’uva fogarina , che proviene da un antico vitigno recuperato nel 2007. Da quest’uva, protagonista di una celebre canzone della tradizione popolare, si ricavano il vino rosato, il passito e la grappa.
Il viaggio continua nella zona di Piacenza con un affascinante paesino come Bobbio
Bobbio appare in lontananza, nell’alta valle, tra la linea sinuosa del Ponte Gobbo e i campanili del Duomo e della basilica di San Colombano.
Fu proprio Colombano a dare inizio alla sua storia. Monaco irlandese che vi costruì, nel luogo dove ora sorge il castello, il primo nucleo di quello che sarebbe diventato un grande complesso monastico, faro di cultura per le sue scuole, lo scriptorium e la biblioteca più importante dell’alto Medioevo.
Intorno all’abbazia benedettina di San Colombano, la Montecassino del nord, che fu spostata nel luogo odierno intorno al IX secolo dall’abate Agilulfo, si sviluppò un borgo che poi crebbe diventando il polo economico della Val Trebbia.
Nel chiostro dell’abbazia, in estate, hanno luogo una serie di eventi tra cui il Festival del Cinema e la Freccia Azzurra, festival di letteratura per infanzia, mentre in piazza San Colombano si svolge, a fine giugno, Irlanda in Musica, rassegna di musica celtica.
In piazza Santa Fara ha sede il Museo dell’abbazia, recentemente riallestito nei locali dell’antico scriptorium, presenta interessanti reperti legati sia alle vicende del monastero sia a quelle della città. E inoltre magnifiche pietre longobarde e carolingie, artistici capitelli, colonnine in marmo e in arenaria che costituivano l’arredo dell’antica basilica di Agilulfo. E ancora il busto in argento di San Colombano e la pinacoteca che comprende il bellissimo polittico di Bernardino Luini raffigurante l’Assunzione di Maria.
La contrada di Porta Nuova conduce al piccolo salotto di piazza Duomo, coronata di portici, al di sopra dei quali si ergono antichi palazzi. Il duomo, innalzato nell’XI secolo e ampliato tra il 1450 e il 1475, presenta una facciata semplice affiancata da due campanili risalente a quest’ultimo periodo.
Un altro simbolo di Bobbio è il famoso ponte Vecchio, detto anche Gobbo o del Diavolo per il particolare profilo ondulato e contorto. Di età romanica con rifacimenti successivi e sovrastrutture barocche, è lungo 280 metri e presenta undici arcate diseguali tra loro. Le prime notizie risalgono al 1196, ma poi fu distrutto dalle piene del fiume e ricostruito più volte.
Segue Vigoleno, frazione di Vernasca che presenta una particolare custode delle millenarie vicende del borgo, ovvero la sua fontana, fatta erigere nel ‘500 dai feudatari conti Scotti “a beneficio umano”.
La fontana è costituita da due vasche circolari. Quella superiore, a forma conca, ha dei beccucci che lasciano cadere l’acqua nella più ampia vasca sottostante, delimitata da un muretto. Attorno ad essa gravitava la vita del villaggio.
E oggi la fontana rende la piazzetta di Vigoleno un luogo intimo, raccolto, dove poter chiudere gli occhi beandosi d’infinito. Poi basta guardare nell’antica pieve, che sta di fronte, il cavallo bianco di San Giorgio che emerge dalla mistica penombra in cui è avvolto, per ricordare i lontani tempi dei paladini e dei cavalieri.
Vigoleno è un borgo-castello dove tutto sembra, pur nella ristrettezza dello spazio, un labirinto in cui non sai mai dove ti trovi, se nel borgo medievale o nel castello, tanto si specchia l’uno nell´altro. Ciò che più impressiona, a guardare dalla pianura, sono le ampie distese di pietra del borgo arroccato.
Su questa pietra si riflettono, a ogni ora del giorno, le varie condizioni di luce creando atmosfere indefinibili. Le suggestioni iniziano subito dopo aver superato il portone d´ingresso al borgo, entrando nella piazza della fontana, con le sue visuali chiuse, la frammentazione dello spazio, le prospettive oblique.
Sul lato est della piazza si nota la volta esterna a botte, in muratura, di un ampio vano sotterraneo: è la cisterna, collegata alle cantine del castello, utilizzata nei secoli passati per le necessità d´acqua degli abitanti. L´acqua, il forno, il pozzo, i depositi delle farine e del vino: Vigoleno è un esempio perfetto della logica abitativa del medioevo.
Sull´altro lato della piazza sorge la chiesa di San Giorgio, in stile romanico, completata nel 1223 ma iniziata probabilmente intorno alla metà del XII secolo. La pieve ha un bellissimo portale che si fa ammirare per i fregi dell´arco e la lunetta con il bassorilievo del santo. La facciata è in pietra locale grigia dai riflessi dorati, mentre l´interno è austero, pervaso dalla penombra da cui emergono i meravigliosi capitelli delle colonne con decorazioni proprie dell´arte romanica.
Nella piazza del borgo e sotto il cielo stellato, nella prima decade di agosto, si svolge la Cena del Vin Santo, che servito fresco a 8-9 gradi si accompagna bene, per armonico contrasto, ai formaggi piccanti Vino passito di delicata finezza, il vin santo di Vigoleno è prodotto secondo un’antica tradizione.
A determinare il suo particolare profumo concorrono le caratteristiche del terreno, l’esposizione al sole e i vitigni impiegati, esclusivamente bianchi non aromatici. Di queste uve vengono raccolti solo i grappoli migliori e la conservazione in botte dura almeno 5 anni.
Il tour all’interno dei borghi dell’Emilia Romagna si conclude nello splendido Castell’Arquato disegnato da belle strade rurali che si snodano tra le colline e proseguono verso i monti dell’Appennino.
Castell’Arquato, da qualunque parte lo si osservi, sorprende per la sua medievalità. Le antiche case color terra scendono da un pendio che le rende visibili da lontano. Fuori, la natura mescola i suoi colori con i vecchi tufi e laterizi. Dentro, gli stretti vicoli ciottolati, i voltoni e le rampe creano, mattone dopo mattone, il piccolo spazio segreto di un paese costruito su un terrazzo di conchiglie fossili.
Castell’Arquato è un borgo d’arte di rara bellezza pervaso di atmosfere d’altri tempi con una ricchissima parte monumentale. La Rocca Viscontea, eretta da Luchino Visconti tra 1342 e 1349, è una delle più notevoli fabbriche militari del Nord Italia.
Oltre ai muri esterni oggi restano le quattro torri difensive, di cui solo quella orientale è integra. Su tutto il complesso domina la mole del dongione, che vale la salita per lo splendido panorama e il museo medievale che vi è allestito.
Nella piazza si resta affascinati anche dal gruppo absidale della collegiata, una delle chiese più antiche del territorio, già esistente nel 756 con funzione di pieve battesimale. Sul lato sinistro della chiesa scorre il portico tre-quattrocentesco detto “del Paradiso” perché ospita le tombe di personaggi illustri.
Il 1292 è l’anno di costruzione del Palazzo del Podestà, sul lato nord della piazza monumentale. L’anima più antica è data dal mastio rettangolare, al quale dal quattrocento sono stati aggiunti corpi successivi, come la Loggetta dei Notari.
Da vedere, inoltre, nel quartiere di Monteguzzo, il Torrione Farnese, eretto intorno al 1530 e rimasto incompiuto, pare, per la morte del duca Bosio II Sforza. Costruito interamente in laterizio, faceva parte del sistema difensivo del borgo con funzioni militari, anche se nel complesso ha una certa grazia che lo rende attraente e misterioso, per via dei passaggi segreti di cui si favoleggia.
Di epoca cinquecentesca è l’ospedale di Santo Spirito, che ospita il Museo Geologico. Poco distante il Museo Illica, dedicato al librettista di Puccini nato e vissuto qui, che raccoglie spartiti, manoscritti, abiti di scena, lettere e testimonianze.
Perdendosi nella trama dei vicoli e delle stradine che rendono così piacevole passeggiare per Castell’Arquato si può partecipare a Monterosso Festival, a metà aprile. Al vino bianco da aperitivo prodotto nella zona di Castell’Arquato, è dedicata una manifestazione che riunisce l’eccellenza dei produttori della Val d’Arda.
Il Monterosso Valdarda Doc Colli Piacentini prende il nome da una collina accanto al borgo, si produce solo nelle valli circostanti ed è, perciò, il vino locale per definizione. Giallo paglierino, profumo delicato, secco, ideale con salumi e risotti.
A questi poi si aggiungono gli anolini in brodo (anvein in dialetto) che, mentre nel resto del Piacentino si fanno con un ripieno di stracotto, qui il ripieno è di grana padano amalgamato con pane grattato e odori. Il brodo è rigorosamente di gallina, manzo e vitello.
Alessandro Campa
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