I Borghi più Belli d’Italia: Molise
I borghi nascosti di una regione fiera ed orgogliosa della sua storia
Una regione su cui aleggia da sempre un misterioso fascino. Un territorio poco celebre e a volte dimenticato. In realtà, il Molise si presenta come regione fiera ed orgogliosa della sua storia e delle sue tradizioni, illustrate principalmente in alcuni dei suoi borghi nascosti.
A partire da Oratino nel cuore della valle del Biferno e all’interno del territorio di Campobasso.
Isolato su una rupe, Oratino è borgo di transumanza, situato sulle rotte degli antichi tratturi.
Gli anni vissuti nelle fatiche dell’agricoltura e dell’allevamento, oggi si stemperano nella riacquistata intimità del borgo, con le sue trattorie dove trionfano le paste e i legumi, i fuochi rituali del solstizio d’inverno, le sculture in pietra e i legni dorati delle chiese.
L’arrivo ad Oratino può essere l’occasione per conoscere il Molise interno. Tra Seicento e Ottocento, il piccolo villaggio di Oratino ha potuto vedere illustrata sulle sue facciate la grazia degli artigiani locali. I portali, i balconi, le balaustre delle dimore gentilizie, così come gli interni delle chiese, sono opera di fabbri, scalpellini, vetrai e pittori che nelle loro botteghe hanno creato un’arte ricca e affascinante
Una testimonianza è offerta dalla chiesa di Santa Maria Assunta, nel centro storico.
Si ha notizia dell’edificio già nel 1251, ma è stato più volte rimaneggiato, soprattutto dopo il terremoto del 1456, e conserva nella volta della navata centrale l’Assunzione della Vergine, un affresco di Ciriaco Brunetti terminato nel 1791.
Una visita merita il palazzo Ducale, nato come castello fortificato nel XIV secolo, trasformato in residenza gentilizia nel XVIII, e oggi purtroppo di proprietà privata. Magnifici portali in pietra ricordano altri artisti oratinesi come lo scalpellino Domenico Grandillo, lo scultore Silverio Giovannitti, i pittori Benedetto Brunetti, espressione della cultura tardo manierista.
Uno dei simboli cittadini è la torre medievale che si erge spezzata e solitaria su dirupi da brivido, L’alto roccione difeso da mura sannitiche ancora sorveglia gli antichi percorsi delle greggi, le vie d’erba che scendevano dall’Appennino seguendo la naturale conformazione dei luoghi.
L’arte applicata all’intaglio del legno, invece, si può ammirare uscendo fuori dal borgo e recandosi alla chiesa di Santa Maria di Loreto.
Una tipica chiesetta di campagna dove si trovano due interessanti statue, la Madonna del Rosario dello scultore seicentesco Carmine Latessa, e quella di Sant’Antonio Abate di Nicola Giovannitti, datata 1727.
Apprezzare Oratino significa anche mettersi sulle tracce lasciate dai suoi artisti negli altri paesi del Molise. Così, a Castropignano si potrà ammirare la Crocifissione di Periteo Petti nella chiesa del Salvatore, a Civitanova del Sannio la statua lignea dell’Immacolata di Silverio Giovannitti nella chiesa di San Silvestro, mentre a Venafro, nel monastero di Santa Chiara, la pala d’altare di Benedetto Brunetti.
E così via, in un percorso affascinante tra arte, natura e gastronomia.
La Valle del Biferno, infatti, è zona di grande tradizione gastronomica. Tra i primi, si ricordano la minestra di laganelle (piccole lasagne fatte a mano) e fagioli. Tra i secondi, menzione speciale per il tipico cacio e ova, un composto di formaggio di capra e uova cotto nel sugo di salsiccia
I legumi sono il prodotto principale di Oratino. Ceci e cicerchie sono gli ingredienti, con il grano, delle Lessate, il piatto che viene cucinato sul sagrato della chiesa il 17 gennaio, mentre arde il falò acceso in onore di Sant’Antonio Abate.
A questo evento si aggiunge la Faglia, il 24 dicembre, dove un centinaio di persone trasporta a spalla un enorme cero fatto di canne, lungo circa 12-13 metri per un metro o due di diametro, fin sul sagrato della chiesa.
La faglia brucia in un’imponente vampata davanti al campanile e , quello che era un rituale pagano della fecondità, si è trasformato nel tempo e col cristianesimo, in un momento di socializzazione collocato alla fine del ciclo del raccolto, quando i contadini hanno ormai finito i lavori della campagna.
Sempre nella zona di Campobasso si trova Sepino un’antica e monumentale città romana di cui rimangono le rovine che, da sole, meritano il viaggio sin qui.
Sepino è nata sul tratturo come posto di sosta per le greggi e i pastori che percorrevano le vie della lana. Gli stessi pastori, dalla distruzione di Altilia a pochi decenni fa, sono stati gli unici a passare con le greggi nella città morta, fantasticando tra i ruderi.
L’impostazione urbanistica romana è perfettamente leggibile, a partire dalla cinta muraria a doppia cortina che si sviluppa per circa un chilometro e mezzo e comprende tre porte. La prima, Porta Tammaro, racchiude un’area archeologica dove un gruppo di case dalle murature in pietra imprigiona una struttura ad arco.
Proseguendo lungo le mura si trova la torre nord e il teatro, attorniato da casali settecenteschi che si integrano bene con l’ambiente. Costruito nel I secolo d.C., il teatro poteva contenere fino a tremila spettatori e qui venivano rappresentati ludi scenici e pantomime
Porta Boiano, la meglio conservata, presenta sul prospetto esterno una chiave di volta con personaggio barbuto a rilievo, due statue di prigionieri germanici in catene e l’iscrizione dedicatoria che ricorda i finanziatori dell’opera, Tiberio e Druso, figli adottivi di Augusto.
Lungo il decumano, dove si affacciavano le botteghe, si incontrano sul lato destro il tempio, il mercato, il tribunale e, all’incrocio con il cardo, la basilica, formata da un’unica navata centrale con peristilio delimitato da venti colonne a capitello, di cui nove intere.
Continuando lungo il cardo si arriva a Porta Terravecchia.
Sul lato sinistro del decumano, si succedono in ordine il comitium, la sala destinata alle riunioni del popolo, il tempio di Giove e quello dedicato all’imperatore Costantino
Il centro storico di Sepino, invece, presenta edifici con rifiniture a intonaco alternati a fabbricati in pietra a vista. Alcuni portali monumentali e edifici, come il settecentesco palazzo Giacchi e il rinascimentale palazzo Attilio, dalle eleganti finestre e portali in pietra rosa, conferiscono un tocco signorile a un’architettura per lo più rurale.
La chiesa di Santa Cristina, sopravvissuta al terremoto del 1805, comincia la sua storia nel 1099, quando due pellegrini diretti in Terrasanta portarono qui le reliquie della santa. Due battenti di bronzo forgiati nel 1127 nelle botteghe di Oderisio da Benevento, ricordano la dominazione normanna.
Nell’interno, a tre navate con croce latina, sono da vedere il sepolcro del vescovo Attilio del 1536), due altari settecenteschi in marmo, la cappella di San Carlo Borromeo che risale al 1737 con, al centro, una cornice di legno intarsiato e dorato che custodisce reliquiari dell’artigianato napoletano del Cinquecento.
Dalla città romana sul tratturo si raggiunge la città sannitica di Terravecchia a 950 m d’altitudine, con una mezz’ora abbondante di cammino attraverso sentieri nella natura. L’itinerario archeologico è legato a quello naturalistico, perché è ancora possibile percorrere il millenario tratturo Pescasseroli-Candela, una di quelle piste erbose che dal tempo dei Sanniti hanno permesso lo spostamento stagionale di milioni di ovini dalle montagne abruzzesi e molisane alle pianure della Puglia, e viceversa.
Uno dei prodotti derivati da questa attività è sicuramente il latte, da cui si ricavano deliziosi formaggi quali caciocavallo, manteche e scamorze, mentre dalle carni di maiale, prelibatezze come la soppressata, la salsiccia con finocchietto e il capocollo. Da provare sicuramente la polenta stufata con ragù e la pasta fatta in casa (tagliatelle corte) con ceci, fagioli o fave.
Delizie riproposte anche in alcuni particolari eventi che hanno luogo nel borgo di Sepino.
Uno di questi è la Crianzola, 8 gennaio, che segue un’antica usanza, in cui il sindaco invita a cena i capifamiglia del paese e delle contrade, con vini offerti dai produttori locali.
La Festa di Santa Cristina, invece, ha luogo il 23-24 luglio con il tradizionale mercato e la fiera del bestiame che aprono le cerimonie che ricordano il martirio di Santa Cristina, accompagnata in processione da due bande musicali che alla fine s’incontrano nella piazza dando avvio a un concerto comune.
Un evento molto particolare è la Sagra dei Bufù. Nella notte di Capodanno si svolge la tradizionale serenata augurale portata a tutto il paese dai suonatori di bufù, rudimentali strumenti musicali costruiti artigianalmente. I bufù sono grosse botti di legno, ricoperte con pelli di animali, al centro della pelle è legata una canna che, per strofinamento, la fa vibrare, producendo un suono caratteristico.
La provincia di Isernia, invece, regala altri due borghi suggestivi.
Il primo è Frosolone piccolo comune dal fascino rurale, situato in un angolo tra i più belli dell’Appennino centrale.
Appena arrivati qui si viene subito colpiti dalla stupefacente falesia della Morgia Quadra con le sue rocce dalle forme bizzarre e le stalattiti interne. Un luogo ideale per l’ arrampicata libera sulle sue pareti rocciose e sull’altopiano di colle dell’Orso.
Il borgo di Frosolone disegna un mondo di pietra che si sposa con il verde dei pianori, mentre delle antiche transumanze restano i profumi del caciocavallo e l’arte dei coltellinai. In paese, tra stradine selciate e portali in pietra che dichiarano l’età delle abitazioni, si incontra la parrocchiale di Santa Maria Assunta, leggermente sopraelevata e dalla facciata barocca con doppio orologio e statua frontale.
Scendendo dalla doppia scalinata, si accede al palazzo di fronte dove è ospitato il museo del Costume, mentre procedendo lungo il corso, la casetta del Pastore è la dimostrazione dell’abilità dei maestri casari e della bontà dei loro formaggi.
Qui si assiste alla lavorazione della pasta filata e si degustano i migliori prodotti di questa tradizione, come il caciocavallo, la ricotta, la manteca. L’abilità dei pastori locali poi, viene anche manifestata in un evento come la Quagliata, ad agosto.
Un tempo, i contadini lasciavano la pignata borbottare sul fuoco del caminetto. Una tradizione viva anche oggi e rappresentata da sagne e fagioli, un piatto che nei ristoranti si cuoce ancora nella pignata di terracotta. Anche la polenta coi cicori e la pizza di grandinie conservano i sapori di un tempo, per non parlare della minestra di cascigni o dei peperoni con baccalà.
Ma Frosolone è famosa anche per un’altra produzione di eccellenza, quella di coltelli e forbici.
L’arte dei “ferri taglienti”, tramandata di generazione in generazione, è una tradizione che si può conoscere nel museo dei Ferri Taglienti, dove i maestri artigiani di Frosolone mostrano l’antica arte di “forgiar le lame”. Il museo custodisce centinaia di oggetti recuperati dagli eredi dei lavoratori delle forbici e dei coltelli del secolo scorso.
Ad evidenziare l’importanza di questa tipicità artigiana, nel mese di agosto hanno luogo due eventi. Uno è la Forgiatura, una manifestazione di grande successo in cui, nei vicoli del paese, rivive l’antica arte e il battito del martello sull’incudine. L’altro è la Mostra mercato delle Forbici e dei Coltelli, in cui le botteghe artigiane allestite all’aperto mostrano la tradizionale abilità nella realizzazione dei ferri taglienti.
La tappa a Fornelli conclude la meravigliosa visita nei borghi molisani.
Pur non presentando edifici di particolare richiamo architettonico, questo piccolo comune è apprezzabile per la compattezza del suo tessuto storico e urbano, rara in altri centri di questa regione.
A Fornelli sono sette le cose da vedere e, in primo luogo, la cinta muraria che avvolge il borgo. Una cinta muraria medievale tra le meglio conservate del Molise e un impianto urbanistico che ancora ricalca quello originario, rendono interessante il piccolo borgo di Fornelli, naturalmente escludendo l’edificato più recente che si estende fuori del nucleo storico.
Poi le torri “rompitratta”, sette torri inglobate nelle mura difensive che racchiudono il primitivo assetto urbano, testimoni dell’identità del borgo almeno dall’epoca normanna ed in seguito di quella angioina.
La chiesa madre, intitolata a San Michele Arcangelo fa ritenere che il colle su cui essa sorge abbia visto il passaggio e il dominio dei Longobardi.
La parte più alta del paese è occupata insieme dall’autorità religiosa e da quella civile, rappresentata dal palazzo baronale che ripete in gran parte l’impianto dell’antico castello longobardo.
Proprio il palazzo baronale, sorto sulle mura di cinta in corrispondenza della porta di piazza Umberto I, ha due torri circolari normanne inglobate nella facciata principale, i cui caratteri simmetrici sono abbelliti da elementi tardo barocchi presenti nelle mensole dei balconi.
La chiesa di San Pietro conserva il ricordo del bel portale rinascimentale e gli intarsi marmorei del paliotto che decora l’altare barocco. Nella piazza su cui si affaccia la chiesa, si trova la fontana dedicata all’Estate, una copia della scultura che il francese Mathurin Moreau presentò all’Esposizione Universale di Parigi del 1855.
L’aspetto naturalistico del borgo si evidenzia grazie al manto di ulivi che lo circonda, grazie ai quali Fornelli produce un olio fruttato e leggero. Un frantoio all’ingresso del borgo e una cooperativa di commercializzazione testimoniano l’importanza di questo prodotto per l’economia locale.
E l’olio è chiaramente il maggiore protagonista di alcuni piatti tipici di Fornelli.
Come taccunell e fasciuel (una pasta senza uova, tagliata a quadratini, condita con soffritto di olio, aglio e fagioli), sciur c coccia (fiori di zucchine in pastella fritti) e poi r’ suffritt (interiora o frattaglie di agnello fritte con patate e peperoni) oppure casc’ e ova (fegatino di capretto con uova e formaggio).
A deliziare il palato ci pensano i dolci, ognuno diverso per ogni stagione. A carnevale le cioffe (fiocchi di pasta frolla fritti), a Pasqua la pastiera e r’ sciaiun (calzoni ripieni di vari tipi di formaggi e verdure), a Natale la cecrchiata (palline di pasta frolla con il miele) e r sciusc (pasta di pane e patate, fritta e spolverata di zucchero).
Un’ ultima cosa da ammirare prima di andare via da Fornelli sono i monti della catena delle Mainarde, considerate una prosecuzione del Parco Nazionale d’Abruzzo, di cui fanno parte dal 1990, e che il tramonto tinge di rosa e di viola.
Alessandro Campa
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