Vajont, cinquant’anni dopo. L’Italia sempre a rischio dissesto idrogeologico

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A cinquant’anni dalla tragedia del Vajont, il nostro paese deve fare i conti ancora con un rischio idrogeologico sempre piu’ attuale

 

Cinquant’anni sono passati da quella tragica notte a Longarone quando la montagna venne giù, cadde nell’invaso della diga e creò un’onda di piena capace di travolgere e distruggere il territorio di Longarone e le frazioni di Erto e Casso. Vi furono quasi 2000 vittime e un senso di morte e impotenza si posò sui quei luoghi, senza riuscire ad andare più via.

Ogni anno su queste  montagne, fra le Dolomiti e il Piave, si ricordano quelle migliaia di vittime e anche i colpevoli perché – ormai è dimostrato – quel disastro poteva essere evitato. Eppure, nonostante questo,  ancora oggi contiamo i morti causati dal dissesto idrogeologico. E’ accaduto solo qualche giorno fa, con gli ultimi nubifragi, in Toscana e in Puglia.

Certo la tragedia del Vajont fu immensa, di proporzioni tali da rimanere impressa come un marchio nella memoria di tutto il paese. Eppure a 50 anni di distanza  l’attenzione al territorio è ancora scarsa. Cementificazione, antropizzazione, abusivismo, impermeabilizzazione dei suoli, abbandono delle aree rurali, fiumi costretti in spazi angusti, o addirittura dirottati sotto terra.

Nel 2010 il Consiglio nazionale dei geologi ha pubblicato uno studio secondo cui 29.500 chilometri quadrati del territorio nazionale, con quasi 6 milioni di abitanti sono ad alto rischio idrogeologico. La minaccia di frane o alluvioni riguarda 1,3 milioni di edifici, fra cui 6 mila scuole e 531 ospedali.

Per porvi rimedio sarebbe necessaria una gigantesca opera di messa in sicurezza. L’ex ministro dell’Ambiente Clini ne calcolò il costo: 40 miliardi in 15 anni. Ma va calcolato che dal dopoguerra i disastri idrogeologici sono costati 52 miliardi e vite umane perdute per sempre.

Bisognerebbe cominciare smettendo di consumare suolo in una nazione dove ogni anno circa 500 kmq di territorio vengono ricoperti di cemento e di asfalto. Sarebbe necessario poi tornare a riqualificare le aree rurali. Come ha sottolineato il capo della Protezione civile Franco Gabrielli, in audizione alla Camera: “Per contrastare il dissesto idrogeologico, cercando di evitare pesanti conteggi di danni e vittime, riappropriamoci correttamente del territorio, ma non per farci i centri commerciali”. Insomma meglio patate e pomodori  che grigi capannoni.  Opere che, anche in tempo di scarsità di risorse, potrebbero essere cominciate a piccoli passi, e sarebbero capaci comunque di creare lavoro e occupazione.

E chissà se qualcuno finalmente capirà che un piano nazionale di prevenzione e di messa in sicurezza del territorio è la prima, vera, “grande opera” di cui l’Italia ha bisogno. (alessandra severini)

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