Deindustrializzazione e produttività. Come siamo finiti in fondo alla classifica Ue
L’Italia e’ un paese deindustrializzato. Ora tutti scoprono questo fenomeno: politica, giornalisti, burocrazia, imprenditori. Ma abbiamo fatto tutti il nostro dovere?
Da qualche giorno a questa parte tutti hanno riscoperto la parola deindustrializzazione. Speriamo che non finisca come nell’estate di due anni fa, dove tutti scoprirono la parola spread. Dal caso Telecom, oramai sotto il controllo dei soci spagnoli di Telefonica, tutti riscoprono, in netto ritardo, che l’Italia è un paese in cui la produttività, specialmente quella legata all’industria manifatturiera, sta seguendo un crinale pericoloso, che ci pone fanalino di coda in Europa, dopo Spagna e, persino, Grecia.
Il problema italiano della produttività è in gran parte legato al cosiddetto cuneo fiscale, cioè alla discrasia di quanto un lavoratore costa all’azienda e quanto poi lo stesso lavoratore intasca di salario. Ma non finisce qui! Tra i grandi nemici di una buona produttività ci sono burocrazia e lentezza della Pubblica Amministrazione, che se fossero legate ai tempi delle aziende private sarebbero fallite da secoli.
L’Italia appare, ed è, un paese ingessato. Però esporta tantissimo, e il nostro export è famoso per qualità e immagine e contribuisce molto sulla produzione nazionale. Ripartiamo da qui. Ma sappiamo che non basta, fino a quando tutti non faranno la propria parte. Volete un esempio? Dopo 11 mesi dall’entrata in vigore delle norme che regolano l’entrata di soci nelle ‘start up innovative’ (con la possibilità per le persone fisiche e le società che investono in queste attività di avere detrazioni su Irpef e Ires) non sono stati ancora emanati i regolamenti che attuano la legge prevista dal Decreto Sviluppo Bis del 2012.
Chissà in quale stanza, di quale ministero si sarà perso questo regolamento. A noi piacerebbe saperlo.
Produttività vuol dire anche che un paese come l’Italia, per esempio, non può rinunciare all’acciaio dall’oggi al domani, chiudendo l’Ilva di Taranto, senza tentare un piano che salvi e coniughi lavoro, ambiente, ma soprattutto dignità. La storia industriale del nostro paese, in molti casi è già andata a rotoli. Ma rinunciarci del tutto sarebbe deleterio. A quel punto meglio andare a vivere all’estero. Se poi dobbiamo rinunciare al nostro futuro. (mig)
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