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cefalù sicilia

I borghi più belli d’Italia: Sicilia

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cefalù sicilia

Ricca di storia e antiche vestigia

Affascinante isola ricca di storia e antiche vestigia. Un ingresso speciale conduce alla scoperta della Sicilia dalla città di Messina. E proprio in questa provincia si possono scoprire dei piccoli ed incantevoli tesori nascosti che vanno a descrivere in modo completo questo lembo di terra affacciato sul Mediterraneo.

Il viaggio nei borghi siciliani inizia da Castroreale paesino di tremila abitanti svettante su vallate e colline di una parte della Sicilia accarezzata dal Mar Tirreno.

Castroreale offre in ogni suo angolo una sintesi di arte e natura. Se si distoglie lo sguardo dai monumenti, questo corre subito agli splendidi panorami circostanti, come quello su Capo Milazzo e le isole Eolie che si ammira dal belvedere di Piazza delle Aquile.

Alla bellezza di un paesaggio dolce e cangiante, fatto di pendii e crinali, corrisponde un prezioso assetto urbano. Portali bugnati del XVI e XVII secolo, balconi su mensole in pietra frutto del lavoro secolare di lapicidi locali e poi le tribune dorate delle chiese, le sculture di pregio, i preziosi arredi sacri del Museo parrocchiale: sono le testimonianze del suo passato di città alleata dei re aragonesi, che Castroreale custodisce con cura.

Sul fianco orientale del Duomo una lapide del 1693 sormontata da tre aquile di marmo ricorda i privilegi concessi a Castroreale da Filippo IV di Spagna. Il portale che si apre lì accanto è di gusto tardo manieristico siciliano, così come lo è l’altro elegante portale marmoreo che si apre su piazza Duomo.

La chiesa, eretta nel primo trentennio del Seicento e dedicata all’Assunta, conserva al suo interno notevoli opere d’arte, tra cui risaltano subito agli occhi l’elegante statua marmorea di Santa Caterina di Antonello Gagini, autore anche di un’acquasantiera e della scultura di Santa Maria di Gesù.

Percorrendo il corso Umberto I si arriva alla chiesa della Candelora, risalente alla fine del XIV secolo, che probabilmente era la cappella del castello di Federico II d’Aragona. Il portalino di tipo durazzesco e la cupoletta in stile arabo sono le sopravvivenze originarie della chiesa.

Al suo interno si ammira la grandiosa tribuna di legno dell’altare maggiore, riccamente intagliata e indorata d’oro zecchino, magnifica espressione dell’artigianato artistico messinese in epoca barocca.

Su Piazza Peculio, invece, si affacciano il monte di Pietà, fondato nel 1581 dalla confraternita di San Leone con finalità assistenziali, e la fiancata meridionale della chiesa del Santissimo Salvatore, eretta verso la fine del Quattrocento nel cuore della Giudecca, il quartiere ebraico, e successivamente ingrandita e ornata di stucchi barocchi.

Ma a Castroreale è necessario soffermarsi ad ammirare altri due importanti edifici sacri.

La chiesa di Santa Marina, costruita nel periodo normanno-svevo, che unisce elementi di gusto romanico locale con decorazioni barocche e ingloba strutture appartenenti al sistema di fortificazione aragonese.

E poi l’adiacente chiesa di Sant’Agata, attestata già nei primi anni del secolo XV e ampiamente rimaneggiata nel 1857, che custodisce, oltre alla devozionale immagine seicentesca del Cristo Lungo, una splendida Annunciazione di Antonello Gagini.

A Castroreale la sacralità si manifesta anche in estate con la Festa del Cristo Lungo. La liberazione del paese dal colera nel 1854, attribuita al Santissimo Crocifisso, è ricordata portandone in processione il simulacro in cartapesta e a grandezza naturale.

Il Cristo, montato su un legno alto 12 metri, viene inalberato e condotto nel pomeriggio del 23 agosto nella chiesa Madre, dove rimane esposto fino al pomeriggio del 25, quando viene restituito, sempre in processione, alla chiesa di Sant’Agata. Le operazioni di inalberamento e abbassamento del Cristo richiedono la maestria dei “forcinari” e dei portatori della “vara”.

Agosto è anche il mese di altri eventi come Castroreale Jazz, rassegna nata nel 2000 che ospita artisti di livello nazionale e internazionale e di Passeggiata Notturna, visita guidata del borgo tra danze, musica, degustazioni.

Sempre nello stesso mese, in più, ha luogo la Sagra del Biscotto Castriciano.

Chiamato anche il “biscotto della badessa”, perché ideato, secondo tradizione, dalle monache del convento delle Clarisse, è il dolce per eccellenza del borgo con aroma di semi di anice e una ricetta gelosamente custodita dai produttori locali.

Esiste in due versioni: quella dura, adatta a essere inzuppata nella granita o nel vino dolce, e quella morbida, farcita con nutella o marmellata. Una nota salata viene invece offerta dagli imperdibili maccheroni di grano duro fatti in casa, conditi con ragù di maiale, oppure “alla norma” con melanzane e una spolverata di ricotta salata.

A San Marco d’Alunzio si va a lezione di storia dell’arte.

 

Si visita un museo a cielo aperto racchiuso in questo antichissimo paese della provincia di Messina, alto sui Nebrodi, dai quali domina la costa tirrenica da Cefalù a Capo d’Orlando.

Rovine di un tempio ellenistico, ruderi normanni, affreschi bizantini, vasi greci d’argento a rilievo. Da qui sono passati tutti e le pietre di marmo rosso di San Marco raccontano la storia millenaria di un paese che, anche nelle murature più ordinarie, rivela materiali di architetture di epoche diverse, in una commistione culturale che è il fascino stesso della Sicilia.

Nella parte più alta dell’abitato si scorgono i ruderi del castello di San Marco, fatto edificare da Roberto il Guiscardo a partire dal 1061 sui resti di una fortificazione preesistente. Fuori delle mura, prima di entrare nel centro storico, si nota in posizione isolata la chiesa di San Marco, costruita sopra il tempio di Ercole risalente al IV secolo a.C. e del quale non restano che pochi blocchi in pietra tufacea.

Tra le chiese ancora presenti sul territorio, San Teodoro, chiamata anche Badia piccola, è sorta nel XVI secolo sui resti di una cappella bizantina, ha pianta a croce greca e ciascun braccio quadrato termina in una cupoletta.

Il monastero delle Benedettine, edificato nel 1545, è stato di recente ristrutturato per accogliere il Museo della Cultura e delle Arti Figurative Bizantine e Normanne che si articola in tre sezioni, Archeologia, Arti figurative bizantino-normanne e Medioevo nei Nebrodi.

L’unità archeologica comprende reperti ceramici e un ricco lapidario di epoca greco-romana, e vanta tra i pezzi più interessanti un’ara sacrificale dedicata ad Augusto, mentre la sezione sulle arti figurative bizantino-normanne è posta nell’ex chiesetta detta dei “Quattro Santi Dottori della chiesa d’Oriente” per degli affreschi che raffigurano questi personaggi della chiesa orientale.

La parte sul Medioevo nei Nebrodi custodisce alcuni reperti e una ricca documentazione iconografica sui principali aspetti dell’architettura, della scultura, delle arti minori e della cultura dell’intera area nebroidea fino al XIV-XV secolo.

La chiesa della Madonna Annunziata, situata all’inizio del paese come a guardia dell’abitato, fu costruita probabilmente sui resti di un tempio pagano ma nel corso dei secoli ha subito diverse trasformazioni, alcune delle quali sono documentate da affreschi bizantini ritrovati sotto l’intonaco dei muri.

Ma a San Marco d’Alunzio non ci sono solo edifici sacri, ma anche eventi carichi di spiritualità, come la Festa del Crocefisso di Aracoeli, l’ultimo venerdì di marzo. Il crocefisso è portato in processione da 33 babbaluti, incappucciati e vestiti con un saio blu, secondo una tradizione che si ripete dal 1612.

Nel pomeriggio il Cristo viene posto nel sapurcu, un mausoleo allestito con drappi rossi e gialli e illuminato da centinaia di candele, che rappresenta il Pretorio di Pilato e che da terra si innalza fino alla cupola della chiesa dell’Aracoeli.

A questa segue la Festa dei Santi Patroni San Marco Evangelista, San Nicola di Bari e San Basilio Magno, dal 30 luglio al 2 agosto. Vari eventi si susseguono, tra cui la processione di San Basilio con decine di torce (ceri alti un metro ornati di basilico, fiori, nastri e foulard) portate dai devoti che precedono e seguono la vara e la benedizione e distribuzione ai fedeli delle collure, ciambelline di pasta azzima.

L’anima di Montalbano Elicona va cercata nell’antico borgo, tornato a vivere con un progetto comunale di recupero che lo ha trasformato in albergo diffuso, un vero e proprio Medieval Resort.

 

Sono circa cinquanta le casette del centro storico, distribuite in un dedalo di viuzze, ognuna di varie dimensioni e diversa tipologia, che sono state ristrutturate e restaurate nel rispetto dell’atmosfera e dell’architettura medievale.

Le casette sono state destinate a campus universitari e a case albergo, in cui, dal 2008 si svolge l’ International Summer School aperto a studenti italiani e stranieri che, tra luglio e agosto, fanno rivivere l’antico borgo.

Un giro nel centro storico di questo incantevole paesino conduce in un’atmosfera arcana, in cui si viene piacevolmente confusi dalla miriade di vicoli che si intrecciano fra loro formando un affascinante labirinto.

L’elemento storico architettonico più significativo di Montalbano Elicona è il castello che domina un tessuto urbano medioevale irregolare e tortuoso. Edificato su preesistenze bizantine e arabe, il castello è costituito in alto da un fortilizio normanno-svevo e in basso dal palatium fortificato svevo-aragonese.

Al re Federico II d’Aragona si deve invece la ricostruzione dell’edificio e la sua trasformazione da fortezza in residenza reale per i soggiorni estivi. Grazie alla ristrutturazione operata dal re aragonese, il castello di Montalbano è una delle opere più unitarie e armoniose del medioevo siciliano.

Il castello, oggi, viene utilizzato per mostre e convegni, ma è anche sede del Museo delle Armi Bianche.

Unico nel meridione, è articolato in tre sezioni e copre, con intento didattico, un periodo storico che va dal X al XVI secolo, offrendo, nell’insieme, la spettacolare visione di una imponente sala d’armi.

Il luogo di culto più prossimo al castello è la chiesa di Santa Caterina, la cui facciata mostra un bel portale in stile romanico. Eretta intorno al 1300, conserva all’interno una pregevole statua marmorea della santa poggiata su un prezioso basamento a bassorilievo, attribuita alla scuola del Gagini.

Dal belvedere Portello si abbracciano con lo sguardo le vette dei Nebrodi, il capo Milazzo e le isole Eolie. A piedi o a cavallo, lungo suggestivi sentieri, torrenti o laghetti di acque limpide, il territorio di Montalbano offre piacevoli escursioni naturalistiche alla scoperta di paesaggi di grande fascino e di misteriose testimonianze di antiche civiltà.

Un notevole interesse etno- antropologico viene rappresentato dai cùbburi, che potrebbero essere delle postazioni militari di un sistema di comunicazione Ionio-Tirreno, ma più verosimilmente rifugi silvo-pastorali di età preromanica, veri capolavori di ingegneria rurale in grado di garantire un’efficace difesa dal freddo.

E all’antico mondo contadino e pastorale è legata anche la tradizione gastronomica di Montalbano Elicona.

Sono innanzitutto ottimi i prodotti della pastorizia: la ricotta, fresca e salata, i formaggi e le provole, queste ultime, autentico capolavoro dell’arte casearia, presentate anche sotto forma di figure animali come i cavalluzzi di tumma.

E così pure i dolci a base di nocciole, di lavorazione artigianale, che arricchiscono i pranzi e le cene. Unici in tutta l’isola sono i biscotti a ciminu, cioè con i semi di anice, dal gusto forte e particolare, legati alle festività pasquali.

Una cucina fatta di elementi semplici e nello stesso tempo genuini, ricchi di sapori e profumi, come la pasta e fagioli, le fave a maccu e i maccheroni. Piatti comuni che diventano speciali grazie all’aggiunta di alcuni ingredienti come il finocchio selvatico e a scurcilla, la cotica di maiale, nella pasta e fagioli, oppure u sutta e suvra (lardo e carne) e ricotta al forno grattugiata nei maccheroni al sugo di maiale. Per i secondi piatti si prediligono, in genere, gli arrosti di carni ovine e caprine.

Lasciando la costa tirrenica la strada si contorce sempre di più in un susseguirsi di tornanti, finché si apre alla vista un paese di pietra allungato su un costone roccioso che sbuca dai boschi.

L’impressione di essere finalmente nel cuore dei monti, a Novara di Sicilia è netta.

 

E non solo d’inverno, quando il lento fioccare della neve imbianca gli spioventi tetti di tegole di cotto e le cime dei campanili.

Patria dei mitici Ciclopi, Novara ha accolto nell’abbazia il sommesso pregare dei monaci e, nei tortuosi vicoli, il transito degli animali da soma, facilitato dal minimo salto di rottura fra un gradino e l’altro.

L’immagine del paese viene dalle strade in basole di pietra, dai portali del Duomo e delle altre chiese, dalle mensole e dai supporti sottostanti degli antichi palazzi, tutte opere realizzate tra il ‘500 e il ‘700. Ma qui si può ancora vedere qualche cannizza sulla quale vengono messi ad essiccare al sole fichi, pomodori e altri prodotti della terra.

L’uso della pietra, che sul territorio affiora un po’ ovunque, testimonia l’importanza dell’arte dello scalpellino che si tramandava di padre in figlio.

L’arenaria è stata utilizzata nelle costruzioni civili e con elaborazioni di grande pregio in quelle religiose, dove sono presenti anche molti elementi architettonici realizzati in cipollino, un’altra pietra locale, rossa e marmorea.

Nel borgo si è avviato da qualche tempo il recupero delle lavorazioni artigianali (scalpellini, ebanisti e fabbri) che erano state abbandonate.

In un incantevole scenario naturale a valle di un imponente sperone di roccia si erge la Rocca Salvatesta, che raggiunge i 1340 m. Oggi ne restano i ruderi, ma conserva immutata la propria bellezza. Dalla cima si gode l’ampiezza della vallata che scende verso il mare: spingendo lo sguardo sino all’orizzonte si vedono le isole Eolie.

La via Dante Alighieri collega l’area del Castello al sottostante Duomo del XVI secolo, raggiungibile anche percorrendo la via lastricata che inizia dalla piazza principale. La chiesa presenta una bella facciata monumentale con un’ampia scalinata; l’interno è a tre navate delineate da colonne monolitiche in pietra.

Nella parte bassa del borgo si trova invece la chiesa monumentale di San Giorgio Martire, secentesca, oggi adibita ad auditorium, presenta sulla facciata principale un gioco di rimandi con il colonnato interno su cui poggiano i tetti.

Ancora più suggestiva la cinquecentesca chiesa di Sant’Antonio, che conserva il portale in stile normanno e la torre campanaria a guglia, sontuosa e finemente decorata, oltre a custodire statue lignee e dipinti su tela.

Nel periodo di Carnevale, Novara di Sicilia è caratterizzata da un evento particolare come il Gioco del Maiorchino, che ha inizio il 17 gennaio e consiste nel lanciare una ruzzola di cacio, a maiurchèa, lungo un percorso predeterminato, da parte di squadre contendenti.

Il gioco culmina nella Sagra del Maiorchino, il martedì grasso, con la preparazione della ricotta che viene consumata in serata insieme ai maccheroni conditi con sugo di maiale e cosparsi di maiorchino grattugiato. Novara, appunto, è nota per il maiorchino, un particolare formaggio pecorino stagionato da più di otto mesi, le cui forme hanno 10-12 cm di spessore, 35 cm di diametro e un peso di 10-12 kg.

Il Festino di Mezz’agosto, invece, ha luogo dal 14 al 16 agosto, con la tradizionale processione notturna dell’Assunta, prima patrona del borgo.

La vara dell’Assunta, illuminata da 142 candele, pesa una tonnellata e viene portata a spalla da oltre 30 uomini.

Il piatto tradizionale del festino di mezz’agosto è la pasta ‘ncasciada condita con ragù di vitello e castrato, polpette sbriciolate, melanzane, uova e pan grattato. Un altro piatto tipico, dal bel nome di lempi e trori (lampi e tuoni), è preparato con fagioli, cicerchia, granoturco, lenticchie e grano bolliti e conditi.

Altre specialità sono la ricotta infornata, le provole, le nocciole e squisiti dolci come u risu niru, riso mescolato a nocciole tostate con aggiunta di cacao, caffè, buccia d’arancia candita e cannella, i cassatelli, frolle con impasto di fichi secchi, miele, cannella, nocciole, a pignurada, un impastato di frolla tagliata a dadini e fritta e i “diti d’apostolo”, uno speciale cannolo di ricotta con l’involucro di pasta ricoperto di glassa.

Arrivati a Savoca si intuisce che le pietre millenarie, i conventi, le piante e il mutevole paesaggio, hanno una voce: raccontano storie affascinanti che emergono dal polveroso passato.

 

Come quella dell’origine normanno-saracena del borgo, che prenderebbe il nome dall’arabo sabak, che significa unire, perché i saraceni avrebbero riunito in un unico mandamento i castelli della zona.

E per capire il mistero di questo posto basta alzare lo sguardo verso ciò che resta del castello dei Pentefur, i mitici fondatori di Savoca, una comunità di probabile origine fenicia che si stanziò, in epoca imprecisata, sul colle che ancora ne porta il nome.

Aveva ragione Leonardo Sciascia a dar credito al detto popolare secondo cui Savoca ha sette facce. Da qualsiasi parte si guardi, infatti, l’orizzonte offre scenari sempre nuovi: dall’azzurro del mar Ionio all’aspra costa calabra, dai verdi monti Peloritani all’Etna maestoso, dalle cisterne scavate nella roccia alle case separate da strapiombi dove attecchiscono il cappero e la ginestra.

Sette panorami tutti diversi offerti da un borgo che accoglie tra le sue strade lastricate con blocchi di basalto di pietra lavica, le case restaurate con i tetti di coppi siciliani, i portali e le finestre in pietra locale.

Dalla trecentesca porta della città, costituita da un arco a sesto acuto in pietra locale, si accede al centro storico, dove subito si incontrano l’antico Municipio e il palazzo Archimandritale, di cui rimangono poche vestigia.

La chiesa di San Michele, di epoca anteriore al 1250, era anche il luogo di culto del castello, caro agli Archimandriti. Sul prospetto spiccano due bellissimi portali in stile gotico-siculo con archi in pietra arenaria.

La chiesa di San Nicolò, impropriamente detta di Santa Lucia poiché custodisce la statua della patrona di Savoca risale all’inizio del XIII secolo e apparteneva anch’essa all’Archimandrita.

Costruita su un massiccio spuntone di roccia, sembra protesa sul vuoto.

 

Ma il più importante monumento di Savoca è la chiesa Madre del XII secolo, alla cui giurisdizione erano soggette tutte le altre chiese, urbane e rurali, del territorio. A tre navate con capitelli in stile romanico, ma la costruzione originaria risale al periodo normanno.

Qui c’era la cattedra dell’Archimandrita: sul soglio ligneo, che si conserva ancora, è effigiato lo stemma archimandritale. Recentemente sono affiorati affreschi murali tardo-medievali riconducibili all’iconografia bizantina: un dipinto raffigura San Giovanni Crisostomo, il padre della chiesa cristiana d’Oriente.

Il luogo si fa apprezzare per gli itinerari naturalistici.

Il percorso del mito è collegato al Museo Comunale e si snoda, a partire dal Pizzo di Cucco, tra viottoli, antiche trazzere e colline dove abbondano i segni della civiltà contadina: casolari di pietra, recinti e pagliai dei pastori.

Il percorso storico, consiste nelle visite guidate ai monumenti, alle chiese e ai musei del centro storico, tenendo sotto osservazione le “sette facce di Savoca”, i sette diversi punti panoramici del borgo medievale.

Il terzo fine settimana di novembre ha luogo Savoca Sapori, mostra mercato dell’enogastronomia e dell’artigianato locali, con degustazione di prodotti tipici. Tra le specialità da gustare sicuramente rientrano le tagliatelle di pasta fresca fatte a mano, condite con finocchietto selvatico e ragù di maiale, sono la prima delizia che offre Savoca.

In alternativa, i maccarruna, maccheroni di pasta fresca con le cotiche di maiale, solo in estate sostituite dalle melanzane e, tra i secondi, la tagghiata, una grigliata di carni suine e ovine di produzione locale.

Solo qui, la famosa granita siciliana al limone è servita con la zuccarata, il biscotto locale. Savoca, poi, fa uno speciale pane cunzatu, condito con olio di oliva, peperoncino e origano, e a cuzzola, pasta fresca a lievitazione naturale, fritta in olio di oliva e arrostita sul carbone.

Tra cielo e mare Castelmola è la vertigine della visione.

 

Entrano nel suo campo visivo, in un tripudio di fichi d’India, il maestoso Etna con i paesi aggrappati alle sue pendici, la costa ionica, il golfo di Giardini-Naxos, lo stretto di Messina e le coste calabre.

Un occhio vigile sul mare, le spalle alla montagna, il cuore dentro un castello in rovina. Con le sue viuzze che si intersecano e si incontrano nella piazza principale, Castelmola rivela subito l’insediamento medievale.

I colori delle abitazioni variano dal giallo al beige e al rosa antico, i tetti a falde inclinate portano ancora i coppi “alla siciliana”. L’antico arco che segna l’ingresso nel paese è rimasto isolato dopo la costruzione di piazza Sant’Agostino nel 1954.

Proprio la piazza, realizzata a mosaico in pietra bianca lavica, restituisce l’atmosfera siciliana nei marciapiedi alberati in cui sono collocati i sedili in pietra e i belvedere dai quali l’occhio spazia su Taormina.

La chiesa di Sant’Antonino, riadattata ad Auditorium comunale, è in realtà molto antica e si affaccia sulla piazza, su cui si presenta anche lo storico Caffè San Giorgio, fondato nel ’700 dai monaci e adibito a taverna.

Presso l’Auditorium comunale, ad agosto e settembre, va in scena l’Opera dei Pupi, lo spettacolo teatrale che rievoca le imprese dei paladini francesi contro i Saraceni affonda le radici nella storia e nella tradizione popolare siciliane.

Ma un’altra particolarità risiede anche nel Caffè San Giorgio: l’invenzione, da parte di Don Vincenzo Blandano, del vino alla mandorla, che veniva di solito offerto in segno di benvenuto su per il colle di Mola. Pane casereccio, maccheroni fatti in casa, cuddure (ciambelle pasquali fatte con le uova),mostarda, fichi secchi con le noci, vino, olive e capperi, sono gli altri prodotti di questa terra generosa.

Si procede la visita di questo borgo arrivando in piazza Duomo per vedere la chiesa Madre, che nel 1934 ha ricoperto di nuove forme i precedenti stili che vanno dal romanico al gotico. All’interno vi sono quattro altari marmorei posti uno di fronte all’altro e una statua lignea della Maddalena della scuola del Bagnasco.

Sulla scorciatoia che porta a Taormina si incontra la piazzetta-belvedere con la piccola chiesa di San Biagio, semplice e umile, la prima sorta a Castelmola dopo l’arrivo di San Pancrazio a Taormina per portarvi la religione cristiana.

Castelmola è anche Città degli Artisti.

Tutto l’anno, infatti, artisti di levatura nazionale e internazionale sono invitati a trascorrere un periodo a Castelmola, in case del centro storico trasformate in atelier e laboratori, in cambio del dono di una o più opere che andranno a costituire la collezione del Museo d’Arte Contemporanea.

Il viaggio tra i borghi siciliani prosegue verso sud con Castiglione di Sicilia il cui cuore si nasconde tra la neve dell’Etna mista a fiumi di lava e il gorgogliare delle acque dell’Alcantara nelle loro gole.

Un territorio che è sintesi dei quattro elementi: la terra delle campagne, l’acqua dell’Alcantara, il fuoco del vulcano e l’aria di mezza montagna. L’abitato di Castiglione è posto su una collina che domina la sponda sud del fiume Alcantara e si presenta dunque come un tipico centro d’altura, con le case disposte lungo un ripido pendio.

Nel punto più alto si confrontano le sedi del potere civile e religioso. Si arriva in salita ad una piazzetta, intitolata a Sant’Antonio, in uno dei quartieri più antichi di Castiglione, quello dei Cameni.

In quest’area sono sparsi alcuni dei più importanti edifici civili, come i palazzi Camardi, Imbesi, Sardo. Da piazza Lauria si scende lungo la via Federico II per visitare la chiesa di San Marco di origine normanna e poi si sale una ripida scalinata che conduce ai ruderi di una fortificazione dello stesso periodo, o più probabilmente bizantina, chiamata Castelluccio.

Sempre da piazza Lauria una panoramica strada conduce verso la basilica della Madonna della Catena, la chiesa più importante del paese. Iniziata nel 1655, è preceduta da una bellissima scalinata e presenta una monumentale facciata barocca realizzata da Baldassarre Greco.

Più avanti, posto su una rupe d’arenaria, il castello di Ruggero di Lauria è di quasi certa origine normanno-sveva.

La sua importanza nelle epoche passate è tale da aver dato il nome al paese. Uscendo dal borgo e prendendo la via San Vincenzo, si trova un’altra fortificazione: un torrione cilindrico noto come Cannizzu risalente al XII secolo e simbolo della città di Castiglione

Poco più a ovest, in direzione di Randazzo e in aperta campagna, si trova una delle più interessanti testimonianze dell’architettura bizantina siciliana, la cuba di Santa Domenica. Le cube sono le cappelle erette da monaci basiliani tra il VII e il IX secolo e quella di Castiglione, del VII secolo, è a croce greca con pianta quadrata.

Nel comune di Castiglione ricade la maggior parte del Parco regionale fluviale dell’Alcantara, uno dei più importanti fiumi siciliani, che prende il nome dall’arabo al-Quantarah, “il ponte”, a indicare il ponte romano in pietra lavica nei pressi di Calatabiano, ammirato dai conquistatori arabi.

Le profonde voragini note come le “gole dell’Alcantara” sono dunque blocchi di basalto scavati dall’acqua, somiglianti a un canyon.

 

Le colate laviche uscite dalla bocca dei vulcani un milione d’anni fa, le creste dentellate che formano le pareti rocciose a forte pendenza e le acque freddissime del fiume, hanno contribuito alla fama di queste gole alte fino a 50 metri.

Ad agosto Castiglione e i suoi Sapori invita tutti a gustare le specialità gastronomiche locali, dai maccheroni con ragù di maiale e ricotta al forno alle fave a maccu o alla carne che si cuoce rigorosamente alla brace, sia essa di maiale, capretto o agnello.

Tra i favolosi dolci del luogo sono da ricordare almeno le frittelle di ricotta fresca chiamate sciauni, mentre l’Etna Doc si presenta come il vino prodotto del borgo. Nero, robusto e caldo: il vino figlio del vulcano non può essere che così.

Superando Catania ed addentrandosi nell’ entroterra isolano si trova invece Militello in Val di Catania

Dove la chiesa Matrice dedicata a San Nicolò e al Santissimo Salvatore è ricca di tesori artistici, argenti, stampe, sculture, dipinti, esposti per la maggior parte nel Museo San Nicolò realizzato nei suoi sotterranei.

La chiesa di Santa Maria della Stella, sorta dopo il terremoto del 1693, custodisce il sarcofago di Blasco II Barresi e due importanti opere del Quattrocento: la Natività, una ceramica di Andrea della Robbia, e il Ritratto di Pietro Speciale, bassorilievo attribuito a Francesco Laurana.

Sono due le feste patronali: quella del Santissimo Salvatore, il 17 e 18 agosto e quella di Santa Maria della Stella, il 7 e 8 settembre). Si svolge in agosto e settembre il MIFF (Militello Independent Film Fest), rassegna annuale di cinema.

Ottobre è invece il mese della Sagra della Mostarda e del Fico d’India, un’occasione per degustare il fico d’India e i suoi derivati (mostarda, succhi, marmellate, dolci) e altri prodotti tradizionali, come le cassatiddine, la pipirata, la mostarda secca e i biscotti.

Proseguendo nella parte nord dell’entroterra siciliano si arriva a Troina, nella provincia di Enna.

 

Qui è sicuramente da visitare la Pinacoteca civica Istituita nel 2016 e ubicata all’interno dei suggestivi ambienti medievali della Torre Capitania.

La prestigiosa collezione, della quale fanno parte alcuni importanti dipinti rinvenuti nelle chiese locali, comprende opere di autori di primissimo piano fra i quali Scipione Pulzone, Rosa da Tivoli e gli eredi della bottega di Antonello da Messina. Spicca fra tutti un “Ritratto di Paolo III Farnese” di Tiziano, unica opera a sud di Napoli del Vecellio.

L’ Antiquarium archeologico, invece, è stato istituito nel 2015 e espone alcuni tra i più importanti reperti ritrovati nelle campagne di scavi nel territorio troinese. I reperti più antichi risalgono all’eneolitico e riguardano gli oggetti della vita quotidiana di una fattoria preistorica. Di grande valore anche i corredi funebri delle necropoli di età ellenistica e altri reperti di età romana, bizantina e araba.

Di grande importanza anche il Museo della fotografia di Robert Capa, a Palazzo Pretura, ed espone 62 foto inedite del più grande fotoreporter di guerra di tutti i tempi, acquistate dalla Fondazione Famiglia Pintaura all’International Center of Photography di New York. Riguardano scene di guerra e di vita quotidiana e sono state scattate da Capa nell’estate 1943 durante la conquista angloamericana della Sicilia.

La Chiesa di Santa Lucia si trova nel quartiere omonimo e venne fondata nel XVI secolo.

Il muro meridionale della chiesa è un frammento della cinta muraria, caratterizzata da strutture a scarpe e da allineamenti basamentali realizzati da grossi blocchi squadrati provenienti dalla fortificazione ellenistica.

La Chiesa di San Silvestro monaco, invece è il luogo di culto più importante per il borgo di Troina in quanto vi sono sepolte le spoglie mortali del santo patrono. Costruita nel 1625 dai basiliani per ospitare i monaci del cenobio di Sant’Elia, custodisce la statua in marmo bianco di San Silvestro, riferibile alla scuola del Gagini

Proprio al santo patrono è dedicato il Festino di San Silvestro, un ciclo di manifestazioni religiose che si svolge ogni anno a Troina da metà maggio alla prima settimana di giugno. Inizia con due antichissimi pellegrinaggi ricchi di simbolismi a piedi e a cavallo e si conclude con la processione del simulacro ligneo quattrocentesco di San Silvestro.

Un altro evento tipico è la Sagra della vastedda co sammucu che i svolge ogni anno a metà giugno e celebra la più prelibata eccellenza gastronomica del territorio.

La “vastedda co sammucu” è una focaccia ripiena con salame e formaggio tipici arricchita dalla fragranza dei fiori di sambuco.

Tra i prodotti dell’artigiano locale, inoltre, spiccano i manufatti in ferro battuto e in legno intarsiato, l’arte di ispirazione monastica del ricamo e la realizzazione dei tradizionali tammura (tamburi) con pelle conciata.

Per gli amanti della natura e delle attività all’aria aperta non può mancare una escursione nel lago Sartori e nei boschi dei Nebrodi. Luoghi meravigliosi, ricchi di vegetazione, di colori e suoni della natura, di aria pulita e di silenzio che faranno immergere il visitatore in un’atmosfera magica.

A Sperlinga invece tutto è cominciato nelle grotte.

 

Fin dalla preistoria la parete rocciosa che sovrasta il paese è stata scavata dall’uomo per ricavarne rifugi che nel tempo sono diventati abitazioni.

Oggi le grotte hanno porte, finestre, alcune addirittura balconi e restano a testimoniare le antiche civiltà che hanno scelto questo luogo come dimora. Tra i Nebrodi e le Madonie, quasi al centro della Sicilia, sorge un castello in parte scavato in una gigantesca mole d’arenaria dai Siculi a partire dal XII secolo a.C., e in parte costruito sulla stessa roccia intorno all’anno Mille.

Fra i castelli rupestri della Sicilia, quello di Sperlinga è sicuramente uno dei più affascinanti. Al suo interno nel 1282, all’epoca dei Vespri Siciliani, si asserragliò una guarnigione francese resistendo all’assedio per un anno.

Oltrepassato quello che doveva essere il ponte levatoio, si entra in una serie di ambienti che portano nel cuore del castello, dove l’ingegno dell’uomo si fonde con la bellezza della natura: la roccia diventa ora scuderia, capace di ospitare decine di cavalli, ora officina per i metalli, oppure magazzino per le derrate.

Un altro spettacolo è dato dall’”aggrottato”: tutto il fianco del castello che si riversa sul paese è interamente “traforato” da una cinquantina di grotte artificiali, scavate dall’uomo in tempi lontanissimi.

Collegate le une alle altre da stradine e scalini anch’essi ricavati dalla rupe, costituiscono, nel loro insieme, un suggestivo borgo rupestre. Ognuna, al suo interno, si è trasformata in umile abitazione, con una o due stanze al massimo che ancora recano i segni dei millenni trascorsi lì dentro.

Ai piedi del castello si trova la chiesa della Mercede, dove si conserva un pregevole crocifisso ligneo che un tempo era posto nella chiesa interna della rocca. La chiesa Madre, a navata unica e molto semplice, fu fatta costruire dal principe Giovanni Natoli a partire dal 1597.

Ai piedi del castello si trova il Museo etno-antropologico.

In un’ampia grotta di 165 mq sono esposti, divisi per cicli produttivi, gli oggetti del lavoro contadino e di uso domestico. Sempre nello stesso luogo, il 16 agosto, si svolge la Sagra del Tortone, una manifestazione dove si degusta il casereccio tortone, espressione di una genuina tradizione culinaria, insieme al vino locale e tra le bancarelle dei prodotti dell’artigianato.

Sperlinga, infatti, è conosciuta in Sicilia per le produzioni artigianali, come le antiche frassate, variopinti tappeti tessuti a mano su vecchi telai in legno. Vi si lavorano, inoltre, la canna, il salice e l’olivastro per costruire ceste, il giunco per le fiscelle, contenitori per ricotta e formaggi, e la ferula per i furrizzi, i caratteristici sgabelli contadini.

Nella stessa data viene celebrato il Corteo Storico delle Dame dei Castelli di Sicilia. Un evento che rievoca l’episodio del 1282, quando, durante i Vespri Siciliani, una guarnigione francese nel castello rupestre di Sperlinga resistette all’assedio per un anno. Al corteo delle dame, accompagnate da sbandieratori, musicisti e figuranti, partecipa una ventina di Comuni siciliani sede di castelli.

A poca distanza si raggiunge il territorio palermitano dove si scopre Gangi una cittadina dalle origini mitiche che tramuta la roccia in arte e sembra sorgere direttamente dalla pietra.

Nella Sicilia che fu agricola, nell’aria fresca e montana delle Madonie, Gangi si presenta con il colore della pietra che dà volto a centinaia di case strette le une alle altre. Così appare Gangi con l’Etna maestoso sullo sfondo che, per un inganno ottico, sembra vicinissimo. Magie che si evidenziano nei vicoli medievali del centro storico, dov’è custodito un grande patrimonio architettonico e artistico.

La cinta muraria trecentesca racchiudeva la parte alta della città, quella che ancora oggi conserva gli edifici più significativi. La parte più bassa si sviluppa sulle vie in salita, ripide e strette, che conducono al centro storico, le cui strade seguono curve di livello parallele e decrescenti.

Nella città alta la chiesa di San Paolo, edificata nel XVI secolo, presenta una semplice facciata in pietra, arricchita da un portale secentesco ornato di bassorilievi. Su Corso Umberto I si affacciano i palazzi più belli, come l’ottocentesco Palazzo Mocciaro con i suoi saloni affrescati, in uno dei quali si trova un tondo con la rappresentazione pittorica della Gangi dell’epoca.

Piazza del Popolo è dominata dalla trecentesca torre dei Ventimiglia con la sua elegante sequenza di bifore gotico-catalane.

Era una torre di avvistamento, trasformata in torre campanaria durante la costruzione della chiesa Madre.

Accanto a questa la secentesca chiesa Matrice accoglie nel lato sinistro del presbiterio con la grande tela del Giudizio Universale di Giuseppe Salerno, che si firmava lo “Zoppo di Gangi”. Un capolavoro di visionarietà barocca che prende a modello il Giudizio eseguito da Michelangelo per la Cappella Sistina. Da qui si arriva in breve alla chiesa del Salvatore, con guglia moresca del campanile, per vedere il crocefisso ligneo di Fra’ Umile da Petralia e l’Ascesa al Calvario di Giuseppe Salerno.

Molto importante e particolare l’“Itinerario Gaginiano” che coinvolge quattro Comuni delle Madonie ed è il percorso migliore per avvicinarsi non solo alle opere della dinastia artistica dei Gagini e delle loro botteghe di scultura, ma anche ai giacimenti culturali, al paesaggio naturale e all’ambiente e di questo territorio.

Ma Gangi non è solo arte e cultura.

Anche qui la gastronomia gioca un ruolo di primo piano. Il caciocavallo di Gangi è un formaggio pecorino di primo o secondo sale, stagionato e con grani di pepe

Il menu gangitano inizia con la pasta ccu maccu, ditaloni conditi con purea di fave verdi, e prosegue con il castrato al forno con patate, ovvero carne d’agnellone cotta al forno e aromatizzata con vino rosso, rosmarino e spezie.

L’alternativa è un piatto di Quaresima, il baccalà fritto con contorno di finocchietto selvatico. Anche i dolci rispettano le tradizioni: a Natale la cucchia, pasta frolla ripiena di mandorle, uva passa e fichi secchi, mentre in estate e autunno i mastacuttè, biscotti di farina, zucchero e succo di fichidindia.

Petralia Soprana è un borgo che dai suoi tre belvedere domina buona parte della Sicilia.

Si tratta del belvedere di Loreto, che comprende nello sguardo l’Etna e, in senso orario, Enna, Caltanissetta e la vallata del fiume Imera, quello del Carmine che offre il panorama della Sicilia occidentale verso Palermo, e quello di piazza Duomo che volge a est verso Gangi abbracciando l’Etna sullo sfondo.

Nell’arroccato centro storico con vista sui campi, gli artigiani che producevano tappeti con gli antichi telai, i contadini e i pastori che rifornivano il borgo di verdure, formaggi e salsicce, i frati francescani, come frate Umile, che scolpivano crocifissi, rispondevano alle leggi di un mondo che non esiste più, ma che a Petralia sembra ancora incredibilmente vicino.

Da piazza San Michele, che ha al centro una fontana circolare e prende nome dalla secentesca chiesa dedicata al santo, si arriva in piazza del Popolo, frutto della ristrutturazione del 1929. Sulla piazza si affacciano il neogotico palazzo municipale, un tempo convento dei Carmelitani e il palazzo Pottino dei marchesi di Eschifaldo con la sua fuga di stanze al piano nobile e affreschi ottocenteschi.

Si arriva poi in piazza Frate Umile dedicata al frate cappuccino Umile Pintorno da Petralia, autore dal 1623, l’anno della peste nera in Sicilia, di 33 crocifissi scolpiti in legno che si trovano sparsi in Italia meridionale e all’estero.

Percorrendo una stradina si arriva nella scenografica piazza Duomo, su cui si affaccia la chiesa Madre dedicata agli Apostoli Pietro e Paolo.

All’esterno ha un colonnato che le corre lungo un fianco ed è racchiusa tra un campanile di epoca normanna e un campanile settecentesco.

Il comune di Petralia Soprana è interamente compreso nel Parco delle Madonie, 40mila ettari di natura protetta in territorio per lo più montano, dove campi coltivati si alternano a pascoli e, solo in minima parte, alla macchia mediterranea.

Nella frazione Raffo una grande miniera di salgemma fornisce ancora oggi il celebre “sale di Sicilia”.

Un luogo in cui è presente un’area espositiva di sculture di salgemma a cui, ogni due anni ad agosto è dedicata la Biennale Internazionale di Scultura del Salgemma, accompagnata dalla Sagra del Sale.

Un altro evento particolare è il Matrimonio Baronale, la notte di Ferragosto. Una rievocazione storica con sfilata in abiti del Settecento e itinerario gastronomico. Qui la cucina è contadina e mediterranea.

In particolare si apprezzano le minestre: lenticchie aromatizzate con i finocchietti selvatici verdure selvatiche come la cicoria e la borraggine che acquistano gusto grazie all’altitudine. Quando queste verdure sono cucinate insieme si ottiene la virdura maritata.

Tra i formaggi, spiccano il pecorino, fresco o stagionato, il caciocavallo e la ricotta fresca. Le carni allevate nel territorio sono quelle di bovino di razza meticcia, ovino, mentre sono molto gustose le salsicce, compresa quella asciutta. Di vecchia tradizione i dolci, come u risu duci, la natalizia cucchia, l’aceddu che invece è pasquale e i biscotti alla cannella

Geraci Siculo, adagiato sulla schiena rocciosa di un colle, ha una struttura urbanistica di strade strette e tortuose, vicoli e cortili, dove ancora è evidente l’impronta medievale.

 

La visita al borgo inizia dal bevaio della Santissima Trinità, fatto costruire dal marchese Simone Ventimiglia sulla base di un rettangolo di 20 metri di lunghezza con due fontane laterali in pietra. Da lì si percorre l’acciottolata via Biscucco per arrivare al castello di probabile origine bizantina, che sotto i Ventimiglia divenne una fortezza militare.

La chiesa di Sant’Anna, la cappella palatina dei Ventimiglia, dove era custodito sin dal 1242 il teschio di Sant’Anna, invece domina sulle rovine, sugli angoli mozzati delle torri e gli squarci nelle feritoie,

Percorrendo le viuzze medievali si arriva al palazzetto nobiliare in Largo Greco e infine in piazza del Popolo, il salotto di Geraci, su cui si affacciano la chiesa del Collegio e la chiesa Madre di Santa Maria Maggiore, consacrata nel 1495 ma di realizzazione più antica, come si desume dal portale della metà del XIV secolo.

Sentieri montani si aprono a poca distanza dal borgo, inserito anch’esso nel Parco Regionale delle Madonie.

Le montagne sono incise da profondi canaloni e presentano guglie rocciose, canyon, tra cui è spettacolare quello di Gonato, sul versante di Castelbuono e Geraci, e le caratteristiche grandi doline (“quarare”) della zona centrale del massiccio.

La ricorrenza religiosa più sentita dai geracesi è il Santissimo Crocifisso, ogni 3 maggio. Una lenta processione in cui ogni devoto a piedi scalzi porta un cero, in segno di ringraziamento per le grazie ricevute.

Ogni sette anni, invece, la terza domenica di luglio, si svolge la Cavalcata dei Pastori che consiste in una sfilata a cavallo che parte dall’abitazione del “cassiere”, il più anziano e autorevole tra i pastori, un tempo il capo della comunità, e termina nella chiesa Madre dopo aver percorso le vie del paese. Montando cavalli riccamente bardati e indossando i costumi tradizionali, i cavalieri portano in offerta i cavaddruzzi e i palummeddri, animaletti di caciocavallo da loro stessi realizzati.

Proprio i formaggi, tra cui ricotta, caciocavallo e primosale ripieno di acciughe salate alla brace vengono ancora prodotti nei “marcati”, luoghi dove i pastori rinchiudono gli armentie danno vita a queste prelibatezze.

Solo a Geraci, inoltre, cresce un fagiolo verde largamente usato in cucina, ad esempio con un sugo di carne e patate nel piatto che si chiama a pittrina ca fasola. Ma oltre a questo meritano una menzione altri piatti a base di carne, come gli squisiti sasizunedda ca addauro, ovvero polpette di carne tritata avvolti in foglie d’alloro, e di formaggio, tra cui la tuma con le acciughe e la tuma con lo zucchero. Tra i dolci spiccano quelli di mandorle chiamati serafineddi e vuccunetta, nonché le cassate, biscotti di pasta frolla con ripieno di marmellata di zucca o di fichi secchi.

Il viaggio prosegue in direzione del mare scoprendo la meravigliosa Cefalù dove vivono leggende che incrociano culture diverse e incontrano la storia.

cefalù sicilia

Il pluralismo culturale qui si spiega anche col fatto che il popolo di questa città è profondamente legato al mare, ne sente il respiro, il profumo e la sua apertura verso il molteplice e l’inconsueto.

La cattedrale è l’asse su cui ancora ruota l’intera città storica, inserita in un contesto ambientale di grande fascino, tra il vasto orizzonte marino e il tozzo monte cui è addossata. Rimane un mistero il motivo per cui Ruggero II volle edificare una chiesa così imponente, destinata a diventare anche il suo mausoleo in questa piccola città.

Ma il re normanno eresse qui il suo capolavoro: tanto grande da uscire quasi dal campo visivo, severo nel blocco compatto delle due torri e prezioso per il caldo colore dorato delle cortine murarie e lo sfavillio dei mosaici all’interno.

La cosa straordinaria è che il tempio normanno, condizionato da prescrizioni liturgiche bizantine, fu realizzato da architetti e maestranze islamiche, presenti ancora in Sicilia nell’ambito di quel linguaggio culturale che legava l’isola alle regioni del nord Africa.

L’interno della cattedrale è dominato dal solenne ritmo del colonnato e dall’immagine incombente del Cristo Pantocratore nel catino dell’abside, tutto a mosaici su fondo oro, con scritte in greco e latino, di pregevolissima fattura bizantina.

Lasciata questa imperiale meraviglia si va alla scoperta delle altre bellezze della Cefalù medievale, tra cui palazzo Maria in piazza Duomo e l’osterio Magno in Corso Ruggero. Quest’ultimo edificio, risalente al XIII secolo, fu probabilmente costruito su una struttura preesistente, identificata, secondo una falsa tradizione, con la residenza di re Ruggero. Di proprietà dei conti Ventimiglia, conserva due belle bifore duecentesche e una trifora trecentesca ed è oggi adibito a spazio espositivo.

A Cefalù è straordinaria anche la tradizione gastronomica, fatta di sapori e prodotti genuini, anche certificati: olio Dop, vino Doc, pasta del “granaio di Sicilia”, formaggi tipici, carni di qualità allevate nei pascoli madoniti, diverse specialità di pasticceria.

Cefalù ha il profumo del mare, e dal mare trae origine gran parte dei piatti tipici.

Ma la regina della cucina è a base di carne: la pasta ’a taianu (pasta al tegame) è una golosa e poetica unione di sapori e profumi condita con ragù, carne e melanzane fritte e piatto forte della Festa del SS. Salvatore.

Quest’ultimo, santo patrono a cui è dedicata la cattedrale, viene celebrato dal 2 al 6 agosto con liturgie, processioni, luminarie, musica e mercato, elementi principali della festa più importante di Cefalù, al cui interno trova spazio da tempo immemorabile un rito laico, la ‘Ntinna a mare. Si svolge il 6 agosto ed è una gara d’equilibrio: bisogna conquistare una bandiera posta all’estremità di un palo sospeso sull’acqua dalla banchina del molo e cosparso di sego e sapone.

Continuando sulla costa siciliana affacciata sul Tirreno si conosce la provincia trapanese con un borgo affascinante come Erice.

erice sicilia

Il monte su cui sorge è stato, in tempi remoti, sede del culto di una dea della fecondità deputata anche all’amore. Afrodite per i Greci, Venere Ericina per i Romani, una dea che dal monte Eryx – punto di riferimento per i naviganti – proteggeva chi andava per mare

Ciò che resta oggi dell’antico castello di Venere è opera dei Normanni che per la sua costruzione reimpiegarono probabilmente il materiale proveniente dal tempio della Venere Ericina. Il castello era recintato da torri collegate fra loro da due cortine merlate e da un ponte levatoio.

Accanto alle torri si trova il Balio, bellissimo giardino all’inglese da dove si gode un panorama che comprende da una parte la costa tirrenica del golfo di Trapani, dalla particolare forma a falce, e il monte Cofano, dietro il quale si intravede la punta di San Vito lo Capo. Sull’altro, versante, invece si scorgono il porto di Trapani con le sue saline, le isole Egadi e l’isola di Mozia fino a Mazara del Vallo.

Da Porta Trapani si apre il corso Vittorio Emanuele che porta alla piazza centrale. Lungo il corso, e nelle viuzze intorno, sfilano le facciate barocche dei palazzi e le emergenze principali, dalla chiesa di San Martino, di probabile origine normanna e rifatta alla fine del Seicento, all’impianto urbanistico medievale che circonda la chiesa di Sant’Albertino degli Abbati, pure secentesca.

Al centro del reticolato medievale si trova il complesso di San Pietro con monastero e chiesa tardo trecentesca rifatta nel 1745.

Da via Guarnotti si entra in piazza San Domenico, da dove ci si immette in via Cordici per raggiungere piazza Umberto, su cui si affacciano il Municipio, la Biblioteca Comunale e il Museo Antonio Cordici.

Costeggiando il retro di palazzi del Sei-Settecento si arriva alla chiesa Madre, che sta di fronte alle mura ciclopiche del periodo elimo-fenicio databile intorno al VIII-VII secolo a.C. Eretta nel 1314 per volere del re Federico d’Aragona che si rifugiò a Erice durante la guerra del Vespro, presenta un campanile quadrangolare con bifore che aveva funzione di torre di avvistamento,

Una delle tipicità di Erice sono i dolcetti “di riposto”, ripieni di conserva di cedro, rifiniti dalle artigiane pasticcere che si tramandano la ricetta appresa dalle suore del convento di clausura di San Carlo. E ancora i mostaccioli, le paste volanti, i biscotti al latte fanno bella mostra di sé nelle pasticcerie per il piacere degli occhi e del palato.

Altra eccellenza del borgo è l’olio extravergine d’oliva certificato dalla Denominazione di origine protetta (Dop) Valli Trapanesi e i vini a Denominazione di origine controllata (Doc) ricavati da vitigni autoctoni dell’area collinare circostante quali Grillo e Inzolia che accompagnano i piatti saporiti della cucina ericina e trapanese.

Poco distante Salemi caratterizzato da un Sistema Museale che vanta un corposo patrimonio artistico.

Esso comprende il museo d’arte sacra, il museo archeologico, il museo della mafia, la biblioteca comunale e il centro per il cinema indipendente “Kim”,

Oltre a prendere parte all’ offerta culturale di Salemi, è gradevole anche fare una passeggiata nel Rabato, l’antico quartiere arabo, visitare il Castello Normanno Svevo, ma anche le aree archeologiche di Mokarta, Monte Polizo e San Miceli.

E se tra tanto girovagare dovesse venir fame bisogna provare la “busiata” da gustare con diversi sughi e piatto tipico di Salemi.

Da provare anche le “alivi scacciati” (olive schiacciate), le “milinciani sutt’ogghiu” (melanzane sott’olio) e le sarde a beccafico. I dolci tipici sono quelli con la ricotta, come le “cassatedde” e la sfincia, mentre la tradizione offre il buccellato, impasto di pasta frolla, a forma di ciambella e farcito con uva passa, mandorle e scorze d’arancia.

Si segnala, inoltre, la Vastedda della Valle del Belice, formaggio di latte di pecora a pasta filata, unico in Italia, prodotto tipicamente nella stagione estiva e ottenuto con latte ovino intero, crudo, ad acidità naturale di fermentazione.

Un piccolo viaggio conduce nel territorio di Agrigento e precisamente a Sambuca di Sicilia che racchiude un po’ l’anima di questa splendida regione.

Le stradine del quartiere saraceno, gli archetti che uniscono le casette dei vicoli, la fitta rete di abitazioni, ma anche i cognomi e gli usi linguistici, richiamano alla mente l’emiro Al-Zabut che, costruendo la sua fortezza, inaugurò quattro secoli di dominazione araba. Poi, sopra il bastione fu costruita la chiesa Matrice e Sambuca acquistò un’altra anima con il colore caldo tipico della pietra arenaria, le chiese barocche, i cortili e le scale di sapore catalano

Lo sviluppo urbano del paese segue due direttrici: quella araba “dentro le mura”, che si proietta fino a tutto il Cinquecento con l’infittirsi delle residenze attorno alla fortezza di Zabut, e quella sei-settecentesca “fuori le mura”, con il palazzo comunale a fare da cerniera.

Lungo corso Umberto I gli edifici signorili, segnati dalla presenza della pietra arenaria e dagli archi passanti che collegano le vie principali ai cortili, si alternano con i luoghi di culto. A metà corso, si segnalano i palazzi Di Leo e la chiesa di San Giuseppe con il suo portale in pietra bianca d’ispirazione chiaramontana.

La chiesa di Santa Caterina d’Alessandria con il suo opulento apparato decorativo è espressione dell’architettura barocca, esaltata da stucchi, statue allegoriche e colonne tortili. Sempre sul corso si trovano l’ottocentesco palazzo Ciaccio in pietra arenaria, il bel prospetto della chiesa del Purgatorio, adibita a Museo d’Arte Sacra e palazzo Oddo (o dell’Arpa) ascrivibile al linguaggio classicista della metà del Settecento.

Questo palazzo, sede del municipio, immette in quella che era la “città murata”.

Da qui, infatti, cambia la geografia urbana del paese: le strade si infittiscono, si aggrovigliano, per poi aprirsi in inattesi slarghi irregolari, ritrovandosi all’interno del quartiere arabo, nel cuore antico di Sambuca, in un groviglio disordinato di vicoli, una casbah con case a uno o due livelli e talvolta con scale rampanti esterne, e con le fughe dei tetti in coppi siciliani che declinano l’una sull’altra.

Per restare a Sambuca, il Monte Genuardo e la Riserva naturale orientata a 1180 m. s.l.m. sono meta di passeggiate e trekking. A oriente di Monte Genuardo corre la valle segnata dai castelli arabi, che controllavano la via dei commerci dal porto di Sciacca sino a Palermo.

Meritano, inoltre, una visita la torre di Pandolfina di metà Quattrocento, che si erge a difesa della masseria, la torre di Cellaro del XI secolo sulle sponde del lago Arancio e, poco distante, i resti del fortino arabo di Mazzallakkar.

Sambuca di Sicilia è anche il luogo dove sono state ideate le minni di virgini, i “seni di vergine. La tradizione ne attribuisce il merito ad una monaca del Collegio di Maria, incaricata nel 1725 dalla marchesa di Sambuca di preparare un dolce per il matrimonio del figlio. Fu così che Suor Virginia prese spunto dalle colline che circondano Sambuca e ottenne una pasta con ripieno di crema di latte, cioccolato e zuccata, ricoperta con glassa di zucchero,

Arrivati nel territorio di Caltanissetta si scopre Sutera un collare di case di pietra intorno alla rupe gessosa del Monte San Paolino che domina la valle del fiume Platani.

 

Proprio in questa valle l’isolamento e l’emigrazione hanno custodito uno dei luoghi più belli di Sicilia. Nelle grotte e negli anfratti formati dai fenomeni carsici si è mossa la civiltà sicana. Negli ipogei restano tracce dei monaci basiliani. Gli Arabi hanno fondato il loro villaggio tra gli spuntoni di roccia, distribuendo i dammusi sotto la rupe gessosa del monte, dall’alto del quale nei giorni limpidi lo sguardo si posa sull’Etna e sul mare di Agrigento.

Il villaggio arabo è ancora leggibile nell’impianto urbanistico, soprattutto dall’alto del monte, da dove si ammirano i vecchi tetti di coppi siciliani e l’intrico di stradine tipico di una casbah araba. Da quel modello è derivata la casa contadina siciliana a un solo piano, il dammuso, con una singola stanza soppalcata, realizzata in gesso.

Il Rabad, quartiere all’estremità del paese fondato dagli Arabi intorno all’860 d.C. era un insieme di case dalle mura di gesso abbarbicate le une alle altre, stretti vicoli, ripide scalinate, bagli e terrazzi. L’insediamento arabo è sepolto sotto i diversi strati edilizi: sulla moschea edificata intorno all’875, il barone Giovanni Chiaramonte nel 1370 innalzò la compatta massa della chiesa di Santa Maria Assunta, ristrutturata nel 1585 e dotata di un elegante portale rinascimentale.

Il Rabad durante il periodo natalizio, si trasforma in un presepe Vivente illuminato da torce e falò.

Un teatro naturale, con le sue antiche case e le stradine strette, in cui 150 attori fanno rivivere i mestieri della civiltà contadina d’inizio Novecento, tra cantastorie e degustazioni di cibi come li ciciri, lu pani cunzatu, la minestra di maccu e la guastedda.

Da qui, lungo una scalinata di 183 gradini distribuiti in quattro rampe, si sale al Monte San Paolino, alto 812 metri, sul cui terrazzo Giovanni Chiaramonte nel 1370 fece erigere sulle strutture dell’antico castello bizantino il santuario di San Paolino.

La Festa di San Paolino, il martedì dopo Pasqua prevede che il reliquiario del santo, un’urna aragonese di finissimo argento del 1498, venga portato in processione dalle confraternite del Sacramento, dello Spirito Santo e di Maria Santissima degli Agonizzanti.

Nella collina di San Marco, infine, caratterizzata da roccia gessosa e friabile frantumata in grotte, si ammirano in un anfratto i figureddi, affreschi in stile bizantino che rappresentano i quattro Evangelisti, la Madonna e San Paolino, probabile opera di monaci basiliani tra il IV e il VI secolo.

Nella provincia di Ragusa si visita Monterosso Almo che all’interno del centro storico presenta una visione di vecchia Sicilia.

Un’atmosfera rurale che affascina e porta in superficie odori e sapori di un territorio bellissimo come la campagna iblea, con i suoi muretti a secco, le sue masserie e i suoi carrubi.

In più a Monterosso si respira aria di montagna e la natura generosa dei dintorni regala panorami e visioni bucoliche. Un borgo pronto a far conoscere i suoi gioielli, a partire dalla vasta piazza San Giovanni, chiamata in dialetto u chianu, il piano, in rapporto con l’andamento a saliscendi del borgo, che segue le curve della montagna.

Un lato della piazza è occupato dalla chiesa di San Giovanni Battista, posta su un terrazzamento naturale e al termine di un’ampia scalinata che le conferisce un aspetto fastoso e scenografico. Gli altri lati della piazza sono occupati dal secentesco palazzo dei baroni Noto e da tre edifici ottocenteschi e neoclassici: il municipio, palazzo Sardo e il monumentale palazzo Cocuzza.

A completare la piazza è la chiesa di Sant’Anna, appartenente ai frati minori riformati che l’inaugurarono nel 1652. L’origine francescana ha fatto sì che il barocco che la riveste fosse semplice e non sfarzoso. Ai frati apparteneva anche l’attuale circolo di conversazione donato ai cittadini laici, arredato con mobili d’inizio Novecento.

Dopo un paio di curve si arriva in piazza Sant’Antonio, dove si fronteggiano due chiese.

La prima, la chiesa Madre, ricostruita dopo il sisma del 1693, sorge in cima a un’ampia scalinata e si presenta con una facciata neogotica che vagamente ricorda l’architettura religiosa dell’Italia centrale.

La seconda chiesa, dedicata a Sant’Antonio Abate, è stata ricostruita dopo il terremoto del 1693 con una facciata abbellita da un portale tardo barocco ad arco spezzato e coronata da un campanile a vela con tre celle aperte e balaustre in pietra

A pochi km da Monterosso, il complesso rupestre delle Grotte dei Santi, nell’area di un cimitero cristiano tardo antico in cui si stabilì un gruppo di monaci, custodisce tombe con affreschi paleocristiani, trasformate col tempo in abitazioni.

Altri siti archeologici sono l’ipogeo di Calaforno, un sepolcreto di 35 camerette scavato nel calcare e risalente all’età del rame e il sito di Monte Casasia, dai cui 836 metri si godono panorami intatti e stupefacenti.

A Monterosso, la prima domenica di settembre, si svolge la Festa di San Giovanni.

Conosciuta dal 1559, lo spettacolare evento richiama emigrati e turisti che assistono alle due processioni e ai riti di uscita e rientro nella chiesa di San Giovanni del simulacro del santo portato a spalla sulla “vara” e accompagnato dai fedeli con grossi ceri gialli in mano.

Il terzo sabato dopo Pasqua, con una sagra dedicata, si celebrano i Cavatieddi Monterossani, pasta fatta in casa, arrotolata con le dita e condita con sugo. Seguono nel menu la carne arrostita di cinghiale, agnello o maiale e la salsiccia.

Ma in realtà è il pane la specialità di Monterosso. A pasta dura, o condito con olio, sale, origano e formaggio, ha una bontà d’altri tempi. Ci sono anche i pani per le ricorrenze speciali, a forma di seno per la festa di Sant’Agata o di occhi per quella Santa Lucia.

A due passi dalla Valle di Noto, dove arte e cultura sono ancora più visibili, si viene accolti da Palazzolo Acreide dichiarata con altre sette città del Val di Noto “Patrimonio dell’Umanità” per le sue architetture barocche.

A piazza del Popolo ecco uno dei gioielli del barocco siciliano, la chiesa di San Sebastiano. Ricostruita dopo il terremoto del 1693, presenta una scenografica gradinata e una facciata a tre ordini, opera di Mario Diamanti.

Sul lato ovest della piazza, il palazzo del Comune ha una struttura architettonica classica con intagli decorativi in stile liberty, mentre in corso Vittorio Emanuele il palazzo Judica ha una facciata in stile barocco con mensoloni e decorazioni ispirati a figure della classicità.

Alla fine del corso, la chiesa dell’Immacolata, dalla sinuosa facciata barocca convessa, custodisce una statua in marmo bianco di Carrara della Madonna col Bambino, capolavoro rinascimentale dello scultore dalmata Francesco Laurana.

Ancor più notevole è la basilica di San Paolo con la sua facciata barocca “a torre”, attribuita a Vincenzo Sinatra, e un prospetto che si presta a bellissimi giochi di luce definendo un indiscutibile capolavoro. La chiesa dell’Annunziata, un altro gioiello del barocco locale, è stata riedificata ad opera di Giuseppe Ferrara dopo il terremoto del 1693, vanta una facciata caratterizzata da quattro colonne tortili binate, e un interno a tre navate con un prezioso altare di marmo.

Da Palazzolo Acreide, inoltre, sono possibili tre itinerari guidati: il primo, archeologico, con visita all’area di Akrai e al Teatro Greco, il secondo, sia naturalistico sia archeologico, con visita ai ddieri di Baulì, abitazioni scavate nella roccia in periodo bizantino a Baulì, tra Noto e Palazzolo, e alla necropoli di Pantalica, con le sue 5mila tombe a grotticella della tarda età del bronzo scavate nella roccia.

Il terzo, invece, ha natura etno-antropologica e riguarda la Casa-Museo Antonino Uccello, realizzata da Antonino Uccello, studioso di cultura materiale e tradizioni popolari, al pianterreno del palazzo Ferla-Bonelli, in cui sono custoditi gli oggetti della civiltà contadina e le tradizioni silvo-pastorali del territorio.

Il tour tra i borghi della Sicilia si conclude a Ferla dove batte il cuore pulsante della storia in questo piccolo centro della Val di Noto ricostruito dopo il terremoto del 1693.

 

Così questa parte dell’isola, ricostruita nelle esuberanti forme del barocco, è diventata un atlante di architetture preziose ed eleganti. Oggi, nell’impianto urbanistico risultato della ricostruzione settecentesca, risplendono soprattutto le chiese, una più bella dell’altra, poste su un percorso, la “via sacra”, che è un ininterrotto scenario barocco.

Si arriva al borgo attraversando l’altopiano dei Monti Iblei, spesso coltivato a grano e caratterizzato dalla presenza di mandorli, di ulivi e carrubi centenari, mucche al pascolo e una fitta rete di muretti a secco.

Il paese accoglie tra i ruderi dei rioni medievali, spesso riutilizzati come stalle o orti, e le vecchie stradine del quartiere Carceri Vecchie da cui, partendo da una chiesa bizantina, si snoda il percorso di sepolcri e grotte.

Via Vittorio Emanuele è la via Sacra, perché lungo di essa si ergono i cinque edifici religiosi del centro storico di Ferla.

La prima chiesa che si incontra nella parte meridionale della strada è quella del Carmine dedicata a Santa Maria del Carmelo e collegata al convento abolito nel 1789. La facciata settecentesca, in conci squadrati di pietra da taglio bianca, presenta due diversi ordini architettonici, dorico e ionico.

Proseguendo lungo il “percorso sacro” si arriva alla chiesa di San Sebastiano, la più grande del paese, eretta dall’architetto siracusano Michelangelo di Giacomo nel 1741 e si presenta con un impianto a tre navate con otto cappelle.

L’incontro successivo è quello con la chiesa Madre, che reca sul portale l’esemplare più antico dello stemma comunale. Anche qui il prospetto è costituito da due ordini architettonici e l’apparato decorativo interno è ricco di stucchi e sculture.

La chiesa seguente, quella di Sant’Antonio, è la più bella, grazie alla flessuosa facciata barocca costituita da tre corpi concavi, di cui i due laterali sormontati da torri campanarie, mentre l’interno è uno spazio dinamico e inedito per le architetture coeve dell’altopiano ibleo.

Risalendo lungo la via Garibaldi, si raggiunge la chiesa di Santa Maria, l’ultima del percorso sacro, che è stata convento nel XV secolo, poi scuola e carcere, e merita una sosta per la presenza di un crocifisso ligneo di Frate Umile da Petralia del 1633.

Alla fine di via Vittorio Emanuele si ha invece un esempio di “nuova frontiera” architettonica nell’edificio che comprende l’ecostazione e la Casa dell’Acqua, sintesi di sostenibilità ambientale e innovazione, allestito con materiali riciclati e resi nuovamente funzionali.

Ad un km da Ferla, su una balza rocciosa, è stata rinvenuta la necropoli di San Martino, una serie di sepolcri ipogei di età cristiana all’interno di anfratti già impiegati nell’età del Bronzo. Si tratta di sepolture ad arcosolio e baldacchino, la principale delle quali è nota come “grotta di Dionisio” per un’iscrizione rinvenuta, relativa a un importante presbitero locale di nome Dionisio.

Ferla non regala solo splendidi edifici di culto, ma anche piccoli capolavori per il palato, come la focaccia casereccia ripiena di bietole selvatiche, pomodorini essiccati e tocchetti di salsiccia, e la salsiccia di suino di Ferla, apprezzata in tutta la regione.

Ottimi i dolci, dalle cassatine pasquali ripiene di ricotta dolce e cannella, alle sfingi, zeppole fritte nell’olio e condite con miele o zucchero. Quasi ogni famiglia di Ferla, inoltre, possiede un piccolo appezzamento di terreno in cui coltiva l’ulivo, fonte dell’eccellente olio extravergine degli Iblei.

Alessandro Campa

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